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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

I tre garibaldini ed altri personaggi di Borghetto e del Torrione

Rimaniamo in zona e rievochiamo altre figure popolaresche del primissimo dopoguerra

Avevo preannunciato che avremmo trattato di un altro delitto, quello avvenuto in S. Agnese al tempo del Fascismo; tuttavia, considerato che abbiamo raccontato di un episodio criminale accaduto in Borghetto e zone limitrofe (ovvero il Torrione), reputando sia forse opportuno allentare un po’ la presa su questi pur rari eventi delittuosi, rimaniamo in zona e rievochiamo altre figure popolaresche del primissimo dopoguerra (la prima) tra cui, nientepopodimeno, tre garibaldini, allora già vetusti trofei dell’estrema epopea legata all’eroe dei due mondi e alla battaglia del Volturno alla quale parteciparono.

Due abitavano in Borghetto. Il primo si chiamava Ghioni, detto “Tastàn”: viveva con la moglie più nota con il nomignolo di “Loìna” perché come la luna in fase calante e crescente, era “falcata” nel fisico e camminava sghemba. Il secondo di cui non si ricordava il cognome era denominato “Nas” per via appunto del naso vistoso; il terzo, ovvero Tiritòla”, non è accertato che risiedesse in Borghetto, ma sicuramente nelle immediate adiacenze: chi diceva in S. Rocchino, chi in S. Tomaso.

Di lui ci è rimasta testimonianza più accurata, forse perché dedito al commercio minuto; anche in questo caso venne raffigurato nei suoi tratti somatici dalla “matita” di Roberto Badini. Si racconta fosse un vecchietto alto, abbastanza bene in arnese, leggermente curvo sulle spalle. Lo si vedeva in giro quasi sempre senza giacca, con un berretto rotondo calcato sulla nuca da cui lasciava sfuggire, con una certa civetteria senile, un gran ciuffo di candidi capelli, alla guisa dei famosi bulli ottocenteschi o addirittura di manzoniana memoria.

Passava di contrada in contrada trainando una carriola carica di mele cotte, castagne bollite, arance, cocomeri, talvolta dei pesci, perché Tiritòla” vendeva di tutto, in ogni stagione dell’anno. Con la sua voce stridula annunciava storpiando in maniera buffa le parole che si sforzava di tradurre in un italiano “sui generis”.

Aveva un debole. Non ammetteva rilievi o osservazioni critiche alla qualità della merce, anche quando era scadente, di infima scelta. Non risulta perchè gli avessero affibbiato quel soprannome così tipicamente indicativo, di indubbio riferimento metaforico al pari di tanti altri che solo il dialetto piacentino sarcasticamente sa compendiare in un’immagine e nella relativa inflessione fonetica. Doveva comunque tratteggiare l’essenza machiettistica del personaggio.

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“Tiritòla” visse povero ed a suo modo felice. Il rosso era la sua passione: quello di Garibaldi e quello Barbera. Quest’ultimo sempre tiritòla.2-2tracannato in abbondanza, allietò gli ultimi giorni della sua “combattuta” esistenza.

Vennero, si diceva, gli anni cruenti del dopoguerra; difficile il ritorno alla normalità sociale; il decollo economico non fu del tutto affannoso, incerto, travagliato; i ceti sottoproletari ripresero le precarie attività tradizionali legate in prevalenza alle aspre, avare, risorse del Po.

Tornati dalla Grande guerra, alcuni giovani andarono a fare i “motarò” ai Sier; altri divennero carrettieri, sabbiaioli, boscaioli; altri ancora lavandai, straccivendoli, bottonai, “scatolèi”, “spasòn”, pescatori.

Ma lo stigma, il marchio della povertà e dell’indigenza, continuò a contrassegnare quasi tutto il corso degli anni’20. Fu allora che ripresero fiato i tradizionali gestori di stallaggi come Gigìn Groppi e Nadàl Franchi, “Papàlo”, “Visèins”; erano ubicati nei rustici caseggiati in fondo alla contrada, ad un passo dal Torrione dove si addensava la miseranda tribù dei diseredati tra cui primeggiava, con scapigliato squallore, quella dei “Gnalèi”, ammassati in una decina nello stambugio dello stallaggio, dai nomignoli grotteschi come quello di “Sès sod”: famiglia decimata in breve volgere di anni dagli stenti, dalla tisi, dall’inedia.

Sull’angolo della contrada, a sinistra del Torrione, aveva bottega una della figure più tipiche del generoso matriarcato borghigiano: Michelina Rossetti, detta “Micòta”, una donna corpulenta e dal cuore d’oro. Il suo locale disadorno costituiva un po’ il “refugium peccatorum”della miseria infantile. Per pochi centesimi infatti dispensava (sovente gratis) "patòna” (farina di castagnaccio bollita), “balit” (ballogie), castagne secche, mele e pere messe a cuocere nel gran pentolone sopra il fornello allestito quasi in mezzo alla contrada.piena '26 prima-2

Una gremitissima galleria di figure, personaggi maschili e femminili, ciascuno a suo modo colorito, tipicizzato, eccentrico. Ad enumerarli casa per casa, partendo dal “Portòn ‘d Gilè (proprietario dell’omonima balera di Piazza Cittadella di cui abbiamo già trattato), sarebbe necessario un intero volumetto.

Perciò, oltre a quelli che già abbiamo citato nelle precedenti puntate dedicate alla borgata di “giad”, possiamo rimpinguare l’elenco con “Pisaia” e l’amico Antinori, sempre occupati a frugare nelle macchie e nelle boschine, quando non andavano con “Pignàca” marito della “Biolèi” per funghi, ovvero ciodèi e orcin. Di fronte al “pompei”, nella parte bassa della contrada, c’era “Giovanèi” Milani, lattivendolo di antica tradizione familiare. In quei pressi aveva bottega la fruttivendola “Giolièta” che proponeva per pochi spiccioli, giardinette e cartocci di frutta fresca assortita.

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Dopo la paurosa piena del Po del 1926 che ruppe l’argine dietro al Tirasegno, iniziarono le opere di innalzamento e fortificazione degli argini. Scomparvero così le selvagge macchie boschive, ricchissime di fauna e flora di tipica specie fluviale, come le anatre ed i salici che gremivano le lanche. Furono poi avviati i lavori di costruzione dell’imponente Centrale elettrica “Adamello”.

Quelli di Borghetto furono ingaggiati come sterratori e carrettieri, mentre le donne lasciando i figlioli in custodia a quella sottospecie di asilo-nido ad una sola stanza d’angolo con cantone S.Rocchino detta “scòla di scgagasòn”, andarono a lavorare nei bottonifici, negli opifici conservieri, nei maglifici (come quello di Faina in via Beverora), oppure alla Direzione d’Artiglieria e all’Arsenale detto “buta ‘d fer” perché essendo azienda bellica di Stato, non poteva comunque fallire.

Insomma in quegli anni stavano per finire i vecchi tempi neri ed agri d’inizio primo Ventennio del secolo quando dai tuguri e dai cortili si udivano echeggiare le strofe di una vecchia canzone “par la sel a gh’è i visei” nel senso che mancava anche quello e bisognava affidarsi alla solidarietà del vicinato.

I tre garibaldini ed altri personaggi di Borghetto e del Torrione

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