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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Il rinnovamento fotografico dei fratelli Manzotti

La mostra del foto-cronista Prospero Cravedi in Santa Chiara mi ha esortato a ricordare i “fotografi-artisti” a Piacenza tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900

La visita alla mostra del foto-cronista Prospero Cravedi in Santa Chiara mi ha esortato a riprendere un argomento non ancora concluso e già affrontato a più riprese nel nostro blog: i “fotografi-artisti” a Piacenza tra i due secoli, ovvero quelli che vi operarono tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900.

Diverse persone, incontrandomi, hanno osservato che, dopo oltre tre anni di episodi raccontati con regolarità quasi settimanale inerenti la “Piacenza popolaresca”, ho di fatto interrotto le puntate per un anno. Per questo, ai miei affezionati 25 lettori (mi scusi il Manzoni per l’impropria citazione…), debbo una spiegazione, anche se, tendenzialmente, tendo ad essere piuttosto riservato sulle mie esperienze personali poiché presto molta attenzione alla mia privacy. Insomma non amo per niente i social anche se, a volte, sono costretto a frequentarli…

Esattamente il 22 di agosto dello scorso anno, mentre mi stavo recando al mare per una settimana di ferie, mi è stato comunicato da mia moglie che il mio adorato Max, il nostro shetland blue merle di dieci anni, era mancato quasi improvvisamente. Lui rappresentava la mia gioia casalinga, l’affetto disarmante, empatico e fiducioso, come quello che solo i nostri cani sanno offrirci; lui era il mio attento, ma discreto compagno, che entrava un po’ guardingo nel mio studio, mi osservava sconsolando e mi costringeva di fatto ad interrompere il lavoro per uscire, almeno per un po’, a giocare. Oppure se era all’esterno, picchiettando con la zampa o appoggiandosi alla porta finestra, mi avvertiva che dovevo prendermi una pausa, ovviamente ludica, con pallina o pallone. E poi sempre comunicava con gli occhi. Era una presenza costante con la mia famiglia, ovunque noi ci recassimo.

Bene: non ho timore a confessarlo; ho interrotto subito la mia pausa estiva appena giunto a destinazione e sono tornato a casa dove regnava la costernazione; ci siamo stretti nel suo ricordo, supportandoci a vicenda perché era mancato uno di famiglia. Ora la sua foto è collocata in diverse pareti della casa; nel mio studio mi basta alzare gli occhi e lo posso ancora abbracciare.

Da novembre, grazie a mio figlio, è stato sostituito da un bravissimo trovatello, un meticcio (spinone e segugio), che era stato abbandonato in montagna. Lo abbiamo adottato; è affettuoso, riservato e dolce; lo abbiamo recuperato a fatica, con costanza, dai traumi subiti, grazie a tanto affetto ed attenzione. Lo abbiamo chiamato Rufus dopo averlo curato e microcippato. Era denutrito, ridotto male. E’ rifiorito e di questo siamo soddisfatti. Lui oggi ci ricambia con un po’ di quella serenità che avevamo perduto con Max, perché con la sua scomparsa dentro di me subito si era rotto qualcosa, persino la voglia di affrontare le giornate. Ero come annichilito. Qualcuno potrà valutarla come una reazione eccessiva, ma è stato così.

Certo ho proseguito il mio lavoro quotidiano, forse in modo ancora più intenso di prima, quasi per distrarmi, ma quello più creativo, meno routinario, quello affidato al ricordo, all’onda dei pensieri vaganti, si è interrotto. Così è stato per il mio secondo romanzo che avevo iniziato, così per le poesie che ancora mi diletto a scrivere e così, infine, per il blog, che per me rappresentava un piacere, un dialogo accattivante con i lettori de “IlPiacenza”, sull’onda emozionale dei ricordi, almeno per coloro che mi hanno sempre gratificato dei loro sinceri complimenti per queste testimonianze sulla nostra amata (ed anche un po’ odiata) città.

Ciascuno ha il suo tempo di latenza; il mio è stato lungo. Finalmente la rimozione è stata in buona parte completata ed ora posso guardare la foto di Max più serenamente, senza che immediatamente prevalga l’emozione e posso tornare a scrivere ancora “una storia per volta” su quella vecchia Piacenza, anche se già molte sono state le puntate. Tanto Vi era dovuto come giustificazione del mio silenzio scritto.

Il rinnovamento fotografico dei fratelli Manzotti

A Piacenza, già alla fine dell’Ottocento, operarono valenti artigiani, per non dire artisti, dell’arte fotografica; la continua scoperta di foto inedite che oggi anche molti lettori postano su Facebook ed altri social che riguardano vie, paesaggi, personaggi dei tempi antichi, ce ne offrono una piena conferma.

Armati di ingombranti macchine sostenute da treppiedi, giravano di borgata in borgata a ritrarre gruppi ed edifici o, nei loro studi fotografici, in piena aderenza all’imperante gusto realistico dell’epoca, studiavano con puntigliosa particolarità, le pose migliori da far assumere ai soggetti ripresi.

Oggi, grazie alla tecnologia degli smartphone siamo diventati tutti fotografi provetti, con immagini da diffondere, sovente a sproposito, sui “social”; tanto provvede a tutto il “telefonino” ed al massimo, se l’immagine è imperfetta, la si corregge. Ma oggi se possiamo ancora contare su tante preziose testimonianze del nostro passato, lo dobbiamo ai primi fotografi, quelli che hanno operato a Piacenza dalla seconda metà del 1800 fino al primi decenni del ‘900. Poi la platea si ampliò e diventa complicato riuscirne a seguire l’evoluzione. Ma pensate al fascino di quel bianco e nero che produceva splendidi ritratti-gabinetto di agghindate signore dai lunghi vestiti; quanta compostezza e fierezza negli azzimati signori dai lunghi mustacchi, immortalati sovente con i pargoli al fianco.

I nomi di questi professionisti sono noti e li abbiamo ricordati in diverse puntate a loro dedicate: Probo Magnani, Francesco Sidoli, i fratelli Gregori, Lavezzi, Magnani, Antonio Morelli. Ed ancora Carlotti, Bonzi, Fagnola, il prof. Milani ed infine Gianni Croce (sul Corso) che iniziò l’attività nel 1920, arrivato da Lodi e formatosi alla scuola di grido internazionale di Marchi. Ricordiamo inoltre Caldi il cui studio fu rilevato dai fratelli Manzotti in Cantone Tempio. Sono loro, con Croce, che improntarono l’attività fotografica piacentina per oltre un cinquantennio.

La vita dei fratelli Manzotti (Erminio ed Eugenio) a Piacenza proseguì sempre su binari paralleli, un’esistenza caratterizzata da un profondo senso di dedizione al lavoro, da una continua ricerca di perfezione come le numerose scoperte in campo fotografico attestano. Tuttavia, prima di giungere a Piacenza, le loro esperienze di vita procedettero diversamente e cercheremo qui di riannodarne le fila, prima di esaminarne più dettagliatamente l’attività che coinvolse, per un certo periodo altri familiari.

Erminio, quinto di otto figli, nacque il 7 agosto 1887 a Nocetolo frazione di Gattatico (Reggio Emilia) e di lì, a due anni, si trasferì a Cogruzzo dove i genitori (il padre Maurizio e la madre Orsolina Caffarri) andarono a coltivare un magro poderetto che uno zio aveva loro affittato per aiutarli a sollevarsi dalla grande indigenza.

Erminio Manzotti-2

Furono anni di intensi sacrifici e di tribolazioni: la poca terra dava a malapena di che vivere; ci si doveva affidare a strettissime economie, i pasti erano a base di insalata, con un’unica forchetta, ricordava Eugenio nelle sue testimonianze, che veniva usata a turno, in ordine di anzianità.

Il giovane lavorava nei campi, si adattò a varie situazioni (un’adozione mal sopportata, bracciante in altre fattorie, la scuola elementare ripresa più volte) finché le incoraggianti lettere che provenivano dall’America dove si erano trasferiti nel frattempo il fratello Ginepro ed il cognato, lo incitarono a partire.

Il viaggio fu il medesimo di tanti emigranti che andarono al di là dell’Oceano a cercare fortuna. Giunto a Sutterville, in California, dopo varie peripezie e lo stordimento di chi giunge in un paese tanto diverso dalla realtà da cui proveniva, si impiegò come il fratello nel lavoro in miniera. Fu lì, che nelle pause, lesse Emile Zola, padre del Naturalismo francese e cominciò ad interessarsi di elettromeccanica.

Cambiò vari mestieri, cercò insomma come tanti emigranti di migliorare la propria condizione, poi nel 1907, un po’ per le malferme condizioni di salute, sia per assolvere agli obblighi di leva, decise di tornare in Italia.

(prosegue)

Maria, moglie di Erminio Manzotti-2

Il rinnovamento fotografico dei fratelli Manzotti

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