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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Il “Viggion” Marigliani, la maschera di carnevale cittadina che veniva dalla montagna

Una volta in città i festeggiamenti carnevaleschi costituivano, sotto molti aspetti, una dolce, amabile esplosione di pazzia collettiva che coinvolgeva tutti i ceti sociali

Il Carnevale, una festa che ha ancora un fascino a Venezia, a Viareggio, a Busseto ed in poche altre città italiane, ma che ormai quasi ovunque, passa del tutto inosservata; ancora di più in questo tempo di pandemia. I modi di vita e quindi anche i divertimenti sonofamiglia Vigiòn-2 radicalmente mutati, ma un tempo, tanti anni fa, non era affatto così e se si escludono gli anni in cui gli eventi bellici mortificarono qualsiasi desiderio di allegrezza, a Carnevale, per un’intera settimana con il culmine del “martedì grasso”, a Piacenza la città “impazziva”, come attestano le numerose testimonianze giornalistiche, nonché quelle che molti anziani anni fa tramandarono a chi oggi più giovane non è.

A quell’epoca, i festeggiamenti carnevaleschi costituivano sotto molti aspetti, una dolce, amabile esplosione di pazzia collettiva che coinvolgeva tutti i ceti sociali, persino la schifiltosa aristocrazia ormai sul viale del tramonto, con incredibile sperpero di mezzi economici, un un’epoca di profondo pauperismo sociale.

I carnevali venivano preparati con accuratezza, con diverse settimane di anticipo ed in quell’occasione anche i più uggiosi “musi lunghi”, persino i più misantropi, diventavano loro malgrado dei “baccanti”, individui che si improvvisavano fautori di burle e di beffe, accettandole e restituendole, perché il detto “carnevale ogni scherzo vale” funzionava davvero.

Dei Carnevali “di una volta” abbiamo già ampiamente trattato, così del “Viggion (Luigione). Era la maschera stracittadina che avrebbe voluto simboleggiare il classico montanaro “scarpe grosse e cervello fino” e rappresentò per i nostri bisnonni quello che fu Balanzone per i bolognesi, “Sandrone” per i modenesi, “Brighella” per i veneti, “Gioppìn” per i bergamaschi, “Gianduia” per i piemontesi.

Certa tradizione folclorica, lo vorrebbe far discendere dalla plaga montanara della Val di Tolla, nel circondario di Morfasso. Arguto, satirico, eclettico era tuttavia espressione di schietto stampo vernacolo, ovvero “dal sass”; ne sono prova inconfutabile le sue filastrocche rimate i cui testi estemporanei, più che scritti, erano tramandati a memoria e poi modificati dagli stessi protagonisti.

Di Viggion sono colmi gli annali carnevaleschi di tanti anni fa, ma di protagonisti “d’alto rango”, dotati di specifiche prerogative, consone cioè alla difficile ed impegnativa parte loro assegnata dall’autentico folclore vernacolo, ce ne sono stati pochi. Si contano sulle dita di una mano. Uno fu l’arrotino (mulёtta) Enrico Loranzi che abbiamo già ricordato in una puntata del nostro blog; l’altro che vogliamo menzionareLoranzi-2 oggi (martedì grasso) fu invece Marigliani di cui purtroppo non è stato possibile reperire il nome di battesimo.

Incarnava, come Loranzi, il piacentino del sasso, anzi del ciottolo… spessissimo lo si vedeva intrattenersi in piccoli conciliaboli di amici e conoscenti ai quali raccontava barzellette di attualità, in genere di sapore piccante e licenzioso. Aveva una parlantina colorita ed arguta, scintillante e concisa e nelle ricorrenze del carnevale indossava i panni del Viggion.

Erano - come ci rammentava il Rebecchi - gli anni agli inizi del ‘900, anni di vita agra (prendiamo a prestito il romanzo di Luciano Bianciardi), tuttavia venati di gaiezza, di briosa evasione che aveva il suo apogeo nel carnevale, nel quale la “commedia dell’arte” della strada, l’arguzia burlesca del popolo straripava ovunque, nelle strade, nelle osterie, nei locali, nei teatri.

Viggion impersonava, con le sue filastrocche rimate, le “businate”, le tiritere, gli strambotti, la coscienza collettiva che irrompeva sul palcoscenico della piazza e della contrada, a commentare fatti, situazioni, avvenimenti senza troppi “peli sulla lingua”.

Non era dunque soltanto un’istituzione figurativa del divertimento occasionale, un pittoresco repertorio del folklore d’evasione e di fuga dalla realtà di tutti i giorni. La maschera di Viggion era l’emblema dell’impegno contestativo, del dissenso, del contropotere come si potrebbe dire oggi.

Per infonderle efficacia e credibilità realistica occorrevano requisiti ed attitudini superiori alla routine generica: bisognava essere autentici “attori di strada”. E tutte queste doti Marigliani le possedeva compiutamente. In primo luogo la dizione, la mimica, la verve, il gusto della battuta pronta e frizzante, l’assenza di artifici teatraleggianti.

Toltasi la maschera grottescamente caricaturale, Marigliani ridiventava distinto ed amabile gentiluomo, brillante e charmant, sempre disponibile al motto di spirito, alla sottolineatura arguta e faceta mai ricercata, sempre spontanea, appropriata alle varie circostanze.

Aveva appreso la professione del bottoniere specializzato, perciò aprì un piccolo esercizio artigianale in via Calzolai. Fu sempre presente in tutte le manifestazioni di vario interesse culturale, alle conferenze, ai convegni. Parlava con forbitezza. I suoi discorsi in pubblico denotavano discreta formazione culturale. Si prendeva lo sfizio di farli stampare distribuendoli gratuitamente agli amici, conoscenti, estimatori.

Negli ultimi anni della sua vita trasferì l’attività in periferia e poi afflitto da infermità Marigliani scomparve dalla scienza cittadina alle soglie della prima guerra mondiale fra il generale compianto. Non se n’era andato soltanto un uomo di squisita socialità ma un artista singolarissimo della teatralità carnevalesca qui tratteggiato, in assenza di una foto, dall’originale e mai convenzionale “matita” di Roberto Badini.

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