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Martedì, 23 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

‘L Lòlo ‘d Torzèla, il facchino analfabeta dalla grande forza fisica e bontà d'animo

Il Lòlu è stato uno di quei mimi di borgata strapaesana; troppo tempo è passato perché ancora lo si ricordi; un nome che per antonomasia venne indicato da intere generazioni come sinonimo di becera ottusità

Questa è un’altra narrazione di permeata tristezza se la consideriamo secondo un’ottica corrente, perché la potremmo definire sicuramente una condizione di emarginazione per la quale oggi interverrebbero i servizi sociali o altre benemerite istituzioni. Ma per comprendere l’essenza e la situazione di questo personaggio (come già in precedenza, e proseguiremo a farlo per altri) del quale ci apprestiamo a renderne una descrizione, è assolutamente necessario che per queste letture si debbano mettere da parte gli attuali stereotipi sociali e limitarci a prendere atto di situazioni quali si sono verificate a Piacenza circa (a spanne) 80 anni fa e quindi in un contesto socio-culturale completamente differente dall’attuale.

Per questi motivi, quelle che oggi potremmo considerare dileggio, cattiveria o menefreghismo, sono categorie che non hanno alcun riscontro per quel periodo nel quale il modo di concepire l’esistenza era del tutto diverso e dove il fattore fondamentale era una sorta di seppur spietata legge della sopravvivenza, unita ad una quasi primitiva solidarietà di vicinato.

Ciò doverosamente premesso (con l’auspicio di non dovere ripetermi per analoghe situazioni che tratterò successivamente), trattiamo stavolta di un personaggio a suo modo notissimo nella “Piacenza che fu”, ovvero al “Lòlu ‘d Torzèla”, nome che per antonomasia venne indicato da intere generazioni come sinonimo di becera ottusità, un sostantivo che però nel suo caso non esprimeva disprezzo, bensì una “conditio sine qua non” che era tutt’uno con il personaggio.

Nelle borgate piacentine di fine ‘800 fino ai primi anni ’50, ci sono sempre stati, come appunto il facchino Gigìn, dei giullari di reminiscenza medieval- cortigiana; era il popolo stesso che li creava per un proprio spasso evasivo, quasi imitando il trastullo dei principi che potevano permettersi il loro buffone di corte.

Il Lòlu è stato uno di questi mimi di borgata strapaesana; troppo tempo è passato perché ancora lo si ricordi; forse solo i più anziani rammentano ancora questo “picaro”, una figura popolare che seppe rispecchiare, alla rovescia, le angosce e l’insicurezza della società attuale.

Il facchino Gigìn non venne mai denunciato allo stato civile; la strada fu la sua vera casa; la sua forza era proverbiale; rallegrò i quartieri dell’antica “Porta Galera”; mangiava quello che gli davano, dormiva dove capitava. Nacque, si ricorda, verso il 1870 e rimase sempre un apolide, figlio della più nera miseria post-risorgimentale. Nacque, visse, operò nella strada allora più caratteristica e malfamata, il Cantone di Torricella, una specie di “corte dei miracoli” nel cuore della Primogenita.

Gigìn non ebbe infanzia perché questa dolce condizione umana non gli fu riservata crescendo e vivendo praticamente sulla strada che fu la sua vera casa. Piacevole e vigoroso in gioventù, di lui si ricorda la forza eccezionale esplicitata nel mestiere che la società del tempo gli offriva: il facchino. Nacque e morì tale, perché anche nella tarda età, quando venne ricoverato all’Ospedale psichiatrico, continuò ad esercitare questa mansione, tanto che si potrebbe affermare, con amaro umorismo, che la morte fu l’unico diversivo di una squallida esistenza.

Era completamente analfabeta e non arrivò mai a contare fino a dieci, neppure sulle dita delle mani. Non a caso l’aneddoto più significativo che ne caratterizzò la figura riguardava appunto le mance che gli venivano pagate in compenso delle sue faticose prestazioni. Non accettava mai le ricorrenti cinque lire in pezzo d’argento e rifiutava ogni altra unità monetaria sia pure cospicua, ma solo, e con gioia, il pagamento consistente in numerosi pezzi (monete di rame), ritenendole di valore superiore. Infatti  se al posto delle cinque lire d’argento gli veniva offerta una sola lira, ma tutta in pezzi da sonanti 10 centesimi, il suo volto si illuminava e dai suoi occhietti si sprigionava una sorniona, euforica contentezza.

La sua forza fisica divenne proverbiale, ma anche in materia di peso l’analfabetismo regnava sovrano: riteneva che un quintale fosse meno di 70 kg. e che due fossero meno di 90 kg; insomma per la sua ritardata mentalità un certo numero di kg. era  superiore ad una corrispondente somma unitaria di peso e naturalmente di questa puerile contraddizione approfittavano sornioni i frequentatori delle osterie di Porta

S. Lazzaro, allora Porta Galera. Di tanto in tanto qualche cliente dell’osteria del “Bàmbèi” si sollazzava a fargli compiere lunghi tragitti con pesanti colli sulle spalle destinati, ovviamente ad altri bontemponi che, a loro volta lo costringevano a ritornare sui suoi passi fingendo un errore di recapito.

Un giorno, per esempio, gli caricarono sulle erculee spalle un sacco di pietre di un quintale dicendogli che era 25 kg e lo indirizzarono da un capo all’altro della città con il solito sistema dei recapiti sbagliati; infine tornato sfinito al punto di partenza, gli dissero che erano 100 kg ed il Lòlu imprecando stava per passare a vie di fatto, ma subito si acquietò con la consueta mancia di molti spiccioli ed un buon bicchiere di vino.

Sembra che per gran parte della sua vita abbia dormito nel sottoscala di una casa in Cantone delle Stalle, alternando questo domicilio con gli anfratti delle vicine mura.

Non si lavava mai, mangiava quando gli capitava; nato all’aperto, vissuto all’aperto, sfacchinando tutta una vita (morì oltre la settantina), non si buscò mai nemmeno un raffreddore ed uscì immune persino dall’epidemia di spagnola che a quei tempi mietè molte migliaia di vittime.

Si racconta che c’era una buona donna che di tanto in tanto, esercitando un ascendente materno, riusciva a ripulirlo ed a metterlo “all’unur dal mond”, malgrado la sua innata avversione ad ogni forma di igiene e decoro esteriore. Durante uno dei famosi carnevali piacentini (di cui tratteremo), Gigìn fu fatto travestire da donna e nominato “reginetta del mercato” tra l’ilarità e lo spasso generale. In quell’occasione però si dovette denudarlo, lavarlo in una tinozza, sbarbarlo e tosarlo e c’è da credere che lo fece senza protestare perché Gigìn, malgrado la sua forza da gigante, era incapace di fare del male ad una mosca; era buono, remissivo, credulo, servizievole. Le sue reazioni furono soltanto chiassosamente verbali e dalla sua bocca uscivano, in caso di collera, improperi, stramaledizioni, minacce ma solo verbali, che costituivano di fatto ulteriore sfondo della sua patetica comicità.

Tutti gli volevano bene. Quando passava per la strada la gente lo chiamava, lo salutava, lo invitava a bere. Visse sempre solo e la sua socievolezza si riduceva a pochi contatti fuggevoli. Le vicine di casa (o le presunte tali) non avendone mai lui avuta una, gli recavano di tanto in tanto un piatto di pasto e fagioli e lui rispondeva con un grazie ed una bonaria maledizione. Non mancava di sorridere alle belle ragazze che però lo scansavano arrossendo per una sorta di ripulsa istintiva ma Gigìn sapeva farle arrossire con i suoi lazzi strampalati e le sue battute procaci. Sapeva che avevano paura di lui e si divertiva facendole scappare con i suoi frizzi triviali.

La sua presenza tra la stazione ferroviaria e le mura di Porta Galera rappresentò per molti decenni una vivacissima nota di colore, un quotidiano pretesto per passatempi che servivano a rallegrare, con anticonformismo, la nostra tutt’ora perdurante e grigia vita provinciale.

‘L Lòlo ‘d Torzèla, il facchino analfabeta dalla grande forza fisica e bontà d'animo

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