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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

L’operosa miseria del “Magnanèi”

Umberto Rebecchi ci ha trasmesso, in diversi scritti su riviste e periodici locali, la gustosa e sapida documentazione di personaggi popolareschi che caratterizzarono la quotidianità piacentina, quando la vita era ancora tutta racchiusa nelle sue mura

Come anticipato, per una serie di personaggi popolareschi che saranno prossimamente protagonisti del nostro blog (dopo la necessaria, seppur breve, pausa estiva), ci avvarremo del prezioso contributo di Umberto Rebecchi (di cui abbiamo recentemente trattato), il poeta-memorialista della “vecchia” Piacenza, scomparso oltre la soglia dei 90 anni nel 1976. Rebecchi ci ha trasmesso, in diversi scritti su riviste e periodici locali, la gustosa e sapida documentazione di personaggi popolareschi che caratterizzarono la quotidianità piacentina, quando la vita era ancora tutta racchiusa nelle sue mura.

Grazie alla sua lungimiranza, nel cogliere tanti aspetti di sociologia “minore”, abbiamo potuto contare su un ulteriore spaccato diretto di quanto fosse dura e spietata l’esistenza dei nostri bisnonni che tuttavia, pur affrontando “tempeste esistenziali” per noi inimmaginabili, sapevano accontentarsi e soprattutto godere del poco, anzi del minimo, sovente con uno sguardo tutto sommato sereno, più che di rassegnazione.

Tra quelli che tratteremo, alcuni furono più istrionici “pёssgatt”, tanto da essere etichettati, nella memoria popolare, come vere e proprie “macchiette”.

In questa occasione invece ricorderemo la figura del “Magnanèi”(in pratica chi riparava vasi, padelle, secchi da stagnare o in rame), uno dei mestieri umili dei nostro progenitori, quelli definiti “poveri” e completamente tramontati, svaniti, ma che arrecavano in sé conoscenze artigianali secolari e di indubbia qualità. Occupazioni ormai estinte e nemmeno etichettate dalle organizzazioni di categoria di secolare retaggio corporativo. Vennero catalogati da diversi insigni studiosi della cultura folclorico-etnografica, dal Cerri, al Fermi, da Tammi, Repetti, Nasalli Rocca, Ambrogio, Dosi, De Giovanni, fino all’Artocchini.osteria-4

Lavori che potremmo definire, con un termine un po’ abusato, “sottoproletari”, esercitati soprattutto nei ghetti più poveri delle borgate ma anche, in taluni casi, nelle piazze maggiori o nel centro storico. Erano operatori che esercitavano nelle loro botteghe senza pareti e senza porte, in pianta stabile o, sovente, itinerante, esposti alla precarietà delle condizioni ambientali o all’intemperie delle stagioni, con il fine principale di riuscire almeno a vivere alla meno peggio, spesso “alla giornata”, in solitudine, senza il supporto affettivo di una famiglia, ma in ogni caso svolti sempre con la massima dignità. Erano la conseguenza di un’economia antispreco, dove tutto doveva essere riutilizzato, una lunga epoca anticonsumistica che potrebbe e dovrebbe insegnarci ancora molto.

Scrisse Rebecchi:” conobbi Giovanni Estivi detto “magnanèi” quand’era un ragazzetto e cominciava allora ad apprendere il mestiere di stagnaio nella bottega del padre in via Calzolai, una bottega ben avviata, ricordo e fornita di utensili ed oggetti di rame, pentole, pentolini, padelle, paioli, pignattine, tegami caffettiere ecc da stagnare e rappezzare”.

Contemporaneamente esercitava anche la non facile professione di ramaio perché, a quei tempi, ogni utensile casalingo era composto di rame, del più lucido rame ed ogni massaia era gelosa del luccichio decorativo dei suoi arnesi da cucina.

Poi purtroppo il progresso e la tecnica rovesciarono sul mercato utensili standardizzati di maiolica smaltata, di alluminio e “duralluminio” ed il rame venne sconsideratamente declassato a “vile” metallo di antiquato uso plebeo. Fu un vero trionfo dell’alluminio che si ripercosse negativamente sulla professione degli stagnai, in genere, che videro diminuire via via il loro lavoro e le loro bottegucce (piccole fucine di allegri rumori) cominciarono ad essere disertate dalla clientela tradizionale cittadina e campagnola.

Il “Magnanèi” e suo padre si ridussero così a lavorare in bugigattoli per risparmiare l’affitto; ma un’altra sventura lo colpì, la morte del padre, artigiano che sapeva il fatto suo; per questo il “Magnanèi” fu costretto a sistemare la stentata attività in una catapecchia in fondo alla “Muntӓ di Ratt”; si diede alle piccole riparazioni, ai lavoretti di rimedio, accontentandosi di trarre da questa attività il tozzo di pane quotidiano.via Calzolai-5

Ma la sventura- proseguiva Rebecchi- non aveva ancora finito di perseguitarlo; il modesto spazio da lui occupato venne adibito a costruzione; vi fabbricarono una casetta ed il “Magnanèi” divenne “nomade” perché non era certo in grado di sopportare neppure minime spese di affitto.

La sua condizione di scapolo a 47 anni egli la considerava un privilegio altrimenti, con moglie e figli, diceva, sarebbero stati guai. Così- scrisse Rebecchi- eccolo ridotto in uno spazio di quattro spanne, in una specie di piccolo cortiletto formatosi, quasi per appianamento geologico, tra calcinacci e vecchi mattoni che egli aveva collocato l’uno sull’altro, fra un incredibile ammasso di macerie di un abitato devastato dai bombardamenti aerei, proprio lì nel tratto dell’isolato di Cantarana, vicino a “Murandèi” (citato più volte nel descrivere Porta Borghetto), suo compagno di disagi ed estrose peripezie esistenziali.

E’ una bottega- stamberga da gruppo bohémien; anzi neppure bottega; qualcosa di approssimativo, di raffazzonato, assolutamente di fortuna, insomma: è qui che il “Magnanèi” lavora (quando gli capita), al caldo ed al gelo; spesso lo incontro  con quel suo “passamontagna” di panno greggio calcato sulla testa, sugli orecchi e sul mento e mi sorride.

E’ fatto così; saluta tutti, è amico di tutti; i suoi problemi in fondo, li considera minimi e relativi. A volte succede che nessuno ha niente da fargli fare ed allora trascorre le ore vuote ed inerti alla vicina osteria “’dla Grasiӧsa” che è il suo recapito di attesa”. Centro dell’azione comunitaria era infatti questa osteria all’angolo con via S. Bartolomeo (oggi l’antico ingresso è murato ndr.), tipica locanda di quei tempi.

La titolare, restituiva nel nomignolo che le veniva dalla prima giovinezza, l’immagine di una popolana soffusa di candida grazia fisica e mentale. A tener testa a tutta quella clientela, talora con molti attaccabrighe, con una mentalità ancorata a futili rivalità rionali, c’era lei, la Grasiusa, l’ormai matura signora fragile e gentile che, con la schietta favella vernacola, dissuadeva anche i contendenti più sfegatati, riportandoli ad un più equo rapporto di tolleranza.

In fondo lei era sempre in credito con certi clienti stracarichi di “tinèi”, di debiti appunto. Carrettieri, legnaioli, ortolani, pescatori, rigattieri, manovali, sulèi ( addetti alla posa dei ciottoli stradali) costituivano l’humus clientelare della Grasiùsa. Non le bottonaie  che lavorano da Capra, perché le donne non entravano all’osteria se non per acquistare il vino da consumare in casa (almeno così mi riferiva la nonna Angela). Nel cortile dell’osteria, aperto su un piccolo scenario di pampini, fogliame di fichi e gloria di rosse amarene, c’era, un piccolissimo gioco delle bocce.

“Di tanto in tanto qualcuno gli porta una bacinella di zinco, una pentola d’alluminio da rattoppare, una serratura da riparare e lui è tutto felice. Almeno il bicchiere di vino tanto necessario a scacciare noia, solitudine, alienazione, se lo guadagnerà.

Quando m’accade di incontrarlo- ricordava Rebecchi- questo povero “Magnanèi, piccolo di statura ma grande di cuore, un senso di profonda mestizia sociale ed umana mi pervade l’animo ed anch’io, lì per lì, mi preoccupo pensosamente  del suo incerto domani. Povero diavolo, penso; così buono, così volonteroso ed abile nel suo mestiere; meritava un’altra sorte.

Avrebbe avuto diritto ad una giusta, meritata e diversa condizione di vita, senza avere solo il conforto del vino; il “Magnanèi”- osservava Rebecchi- è stato insomma una delle tante vittime del consumismo; è proprio il caso di dire che la storia sociale fa un passo avanti e due indietro”.

Al di là di queste considerazioni che non si potrebbero certo compendiare in poche righe, noi nel nostro blog siamo contenti di avere, grazie a Rebecchi, ricordato una figura emblematica della “Piacenza che fu”, quella (come la definì questo poeta-memorialista sensibile ed attento cultore della sua dimensione sociale della sua città), di “tanti umiliati ed offesi” della sua condizione umana.

L’operosa miseria del “Magnanèi”

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