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Giovedì, 25 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

La felicità povera di Sant’Agnese (I parte)

Trattiamo stavolta di una borgata (alla quale per la vastità di caratteristiche sarà necessario dedicare alcune puntate) che, a mio parere, ha in parte conservato, unica tra le numerose che caratterizzavano la città, il suo humus popolaresco

Trattiamo stavolta di una borgata (alla quale per la vastità di caratteristiche sarà necessario dedicare alcune puntate) che, a mio parere, ha in parte conservato, unica tra le numerose che caratterizzavano la città, il suo humus popolaresco, sia per la presenza di diversi locali (che in parte si sono uniformati ad esigenze moderne) sia per la presenza, seppur esigua, di famiglie originarie i cui discendenti hanno deciso, una volta ristrutturate le tante porzioni di case sparse in questa contrada, di tornare a risiedervi.

Sant’Agnese era una delle borgate simbolo della piacentinità vernacola: la sua topografia globale non può essere circoscritta alla contrada-madre di via Angelo Genocchi o, in senso più “ghettizzato” della Gariverta, poiché si ramifica (tutt’ora) in un più articolato contesto urbanistico-edilizio, in un reticolo di vicoli, cantoni, viotoli, non esclusa la contrada collaterale di via Dieci Giugno.

Quella borgata insomma sorta sulle antiche aree rurali poi racchiuse nel perimetro delle mura bastionate, costruite in epoca cinquecentesca, agglomeratasi attorno ai nuclei fortificati del “burgus” medievale con prevalenti caratteristiche militari-  amministrative, a baluardo difensivo contro le incombenti invasioni barbariche.

In questa borgata, ebbero varco di transito i traffici nell’antica Porta Fodesta demolita in epoca antecedente la Prima Guerra Mondiale, situata nella zona dell’attuale viale Sant’Ambrogio nelle adiacenze del canale Fodesta, da cui prese il nome e variamente designata, nel corso dei secoli, come Porta Gariverta, Porta Cremonese.

Con ogni probabilità vi era un varco da cui i navigli transitanti sul Po, potevano accedere all’interno della città risalendo il Fodesta che scorreva tra due robuste mura.

A causa delle frequenti piene del Po i cui detriti sabbiosi e ghiaiosi la resero impraticabile, essa fu murata da Ranuccio Farnese II nel 1680 e nei primi decenni dell’800 fu riaperta e riattivata dagli Austriaci che occupavano Piacenza; fu in gran parte demolita nel 1850 e ristrutturata con nuovi dispositivi di difesa, quali il mastio o torrione semicircolare, tutt’ora esistente sul tipo di quello di Borghetto. Infine venne demolita nel 1907.

Queste brevi note storiche spiegano perché Sant’Agnese e la più antica comunità borghigiana della Gariverta siano state per secoli collegate alla vita del Po, alle sue vicissitudini concernenti i traffici ed i commerci portuali del fiume quando era navigabile e navigatissimo. La fisionomia topografia dalla seconda metà dell’800 è rimasta in gran parte immutata se si esclude l’abbattimento dell’oratorio di Sant’Agnese da cui la borgata prese il nome.

Nel volume “Per le vie di Piacenza” G. Nasalli Rocca annotava che laggiù dove la strada si biforca presentasi l’oratorio di Sant’Agnese già consorzio dei pescatori che un tempo era nominata della S. Croce.

Gli edifici in gran parte conservano (seppur debitamente restaurati) caratteristiche di edilizia rustica spontanea, anche nei rispettivi tracciati vicolari e “cantonali”: si osservi vicolo Bettolino, Cantone Fornace e Cantone del Guazzo.

Come è accaduto su tutto lo scacchiere della vecchia città d’entromura, anche Sant’Agnese ha smarrito (ma un po’ meno delle altre) la propria identità etnico- vernacola, lo stesso “spirito di borgata” si è pressoché vanificato, perduto.

Gran parte dei protagonisti di un’età povera e gaia, spensierata e festaiola (quella delle sagre rionali che però in Sant’Agnese è stata mantenuta fino a non molti anni fa), sono scomparsi; i vecchi sopravvissuti, persone che quando furono intervistate avevano almeno già superato i settanta, rievocavano quasi accoratamente, l’età della cuccagna, con gli ambiti trofei gastronomici posti in palio fra i più abili, agguerriti, arrampicatori.

In quella di Sant’Agnese si riproduceva con varianti a loro modo tipiche, la vita generale piacentina di tanti anni fa, avente per fulcro locali disadorni ed animati delle osterie delle zone situate nella fascia dell’entromura che va da Porta Galera (tratto ex porta Cavallotti e Torricella), Porta Fodesta, Porta Borghetto, Porta S. Antonio, frequentate da musicanti rapsodici, pescatori, sabbiaioli, boscaioli, cacciatori di selvaggina, carrettieri, fornaciai, venditori ambulanti, le cui attività si svolgevano in prevalenza sulle sponde e sulle acque del Po.

E’ anche la Sant’Agnese delle sagre rionali organizzate e “recitate” (Pirèlu) da intraprendenti promotori, con l’ausilio corale degli abitanti dei paraggi e di altri sobborghi cittadini. Quella Sant’Agnese insomma che come si è detto rammenta tempi di stenti, miseria, precarietà giornaliere, quando non si riusciva a combinare il pranzo con la cena ed il vino (droga dei poveri) rappresentava la bevanda più consona ad attutire i morsi dell’inedia prolungata.

Sant’Agnese era dunque una comunità come altre, non meno indigenti e disagiate, L’assenza quasi assoluta di un ceto medio professionale, di una piccola borghesia impiegatizia ed imprenditoriale, ne era il dato sociologico di fondo. I mestieri allora emergenti, pur nella penuria economica, erano quelli dei piccoli artigiani, dei rivenduglioli, dei muratori, dei facchini ferroviari, dei bottegai, dei fornai, dei metalmeccanici, dei bottonieri, etc.

In questa comunità composta in parte rimarchevole di sottoproletari, pullulavano personaggi estrosi, commedianti di strada con i rispettivi ruoli burleschi, estrosi, tic comportamentali, singolari “macchiette” che si  compiacevano di parodiare, in chiave sceneggiata, per l’altrui spasso, tra uno scudlèi e l’altro, la comune condizione umana.

Forse è proprio dal fantasioso lessico santagnesino che è nato il termine commiserevolmente dispregiativo, di “pòsgatt” o, peggio, di “suptòn”, “pesce di specie più infima perché non commestibile) di flagrante metafora pescaiola.
(Prosegue)

La felicità povera di Sant’Agnese (I parte)

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