La giovinezza ribelle di Barbiellini Amidei e la Piacenza del primo dopoguerra
La guerra aveva dunque messo a durissima prova l’economia piacentina
La storia di Bernardo Barbiellini Amidei, prima puntata
Ricostruire le vicende del fascismo piacentino nel periodo che va dal definitivo consolidamento del nuovo regime, all’intervento italiano nella seconda guerra mondiale, non può essere certo oggetto di pochi articoli. Se prendiamo atto che solo Renzo De Felice ha dedicato a questo periodo storico 10 volumi (che ho in buona parte studiato e che mi hanno consentito di liberarmi da lungo tempo da un’ingombrante ed acritica ideologizzazione), è facile comprendere la necessità di offrire un “taglio” ben preciso che, come sempre, sarà rivolto agli aspetti popolareschi e socio-economici della storia della nostra città nella quale Barbellini fu protagonista: al “siur capitani” e non Podestà, come lo chiamavano tutti, compresa la “Bandȇta”, ovvero Benedetta Rossetti, un personaggio assai familiare ai piacentini del suo tempo, custode dei gabinetti pubblici di Piazza Cavalli.
Si diceva che l’onorevole Barbiellini, quando usciva dal Municipio, spesso si trattenesse a colloquio con la “rasdora” della toilette pubblica la quale ad alta voce, come sono soliti fare i sordi, gli chiedeva le novità più importanti del palazzo civico ed egli affabilmente gliele riferiva. Erano notizie già note, ma il ritornello era sempre lo stesso “Siür capitàn, cus’ ghè ‘d nov?”
Questo per evidenziare un carattere aperto, mai fasullo, sempre disponibile (come sottolineeremo in più occasioni) al confronto, come al sollecito soccorso verso gli umili, il popolo, in un periodo inquieto e pittoresco, grazie alla sua profonda fede cristiana, anche se sovente, critica verso l’”apparato” clericale. Se, come ha osservato Angelo Tasca (a conclusione del suo Nascita e avvento del fascismo), “definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia”, anche indagini locali (sottolineava Giuseppe Berti) “possono portare qualche contributo utile”.
Il periodo che si chiude col 1929, ricevette la sua impronta dalla personalità di Barbiellini e dai contrastanti fermenti (velleità socialistiche, esasperazione nazionalista, cattolicesimo misticheggiante) che in essa convivevano. Il futuro Podestà di Piacenza ha un suo posto nelle vicende del fascismo: rientra in quella schiera di ras locali (non a caso tenne strettissimi rapporti con Farinacci, suo protettore nei momenti più difficili), che furono successivamente portatori di esigenze diverse e contrastanti.
Le lotte intestine coi nazionalisti e con i “vandeani”, “forza d’ordine” i primi, esponenti della grande proprietà agraria i secondi, illumina il carattere composito del fascismo piacentino, spiega quell’alternarsi, alla sua guida, di gruppi e frazioni che caratterizzerà l’intero periodo in questione e che sarà una delle cause fondamentali del mancato costituirsi di una classe dirigente fascista locale.
Alla prima fase seguì l’adeguamento incondizionato (seppur percorso da violenti contrasti) al nuovo “stile staraciano”. Il dibattito all’interno del partito si svuotò sotto le prepotenti pressioni dell’apparato organizzativo e degli interventi prefettizi.
Le componenti - ideologiche e sociali- che sin dall’inizio avevano accompagnato gli sviluppi del movimento, convissero precariamente determinando continui stati di tensione, mentre i responsabili che si susseguirono, segretari federali e prefetti, sembravano soprattutto preoccupati di salvaguardare posizioni di potere personale e di mediare la contrapposizione dei gruppi più forti. Non certo Barbiellini.
Inoltre, larga parte della popolazione era toccata solo superficialmente dall’iniziativa del Fascismo, prima movimento, poi partito. Erano scarse le possibilità di penetrazione sia tra i ceti operai (particolarmente influenzati dalla propaganda comunista), che nel mondo contadino e rurale, molto radicato anche in città, assai sensibile ai fattori religiosi espressi dalla vita parrocchiale e nel cui ambito operava l’Azione cattolica.
Ma andiamo con ordine. “Dino” arriva a Piacenza da Roma verso il 1900 e va a risiedere nello stesso caseggiato dove ci sono le Figlie di S. Anna in Stradone Farnese 55. Nel vasto appartamento dove egli trascorse tutta la sua adolescenza e la giovinezza, vi era una cappellina dove ogni sera si svolgeva il rosario, secondo un uso patriarcale, creando un “doppio filo” tra i Barbiellini e la Congregazione di
S. Anna a cui il fondatore del Fascismo piacentino fu sempre legato e verso il quale dispensò a piene mani interventi benefici, anche perché poi questi ricadevano soprattutto sulla povera gente.
A più riprese, durante i periodi nei quali egli fu estromesso dal Fascismo, trovò ospitalità presso questo immenso caseggiato tutt’ora ubicato sullo Stradone Farnese e che confina fin con il Pubblico Passeggio.
Il veicolo di questi solidi sentimenti religiosi che furono sempre di Bernardo, gli furono trasmessi soprattutto dalla mamma Carlotta Custo Gattorno. “Dino”, il minore dei figli, era vivacissimo, irrequieto e ribelle; detestava l’ambiente aristocratico nel quale era nato; “negli anni verdi”- scriveva Molinari - si rivela anticonformista, un temperamento scapigliato ed impetuoso, come il prozio, fratello della “serva di Dio” che a Montecitorio sedeva sui banchi dell’estrema sinistra”.
A Piacenza frequentò per cinque anni il collegio S. Vincenzo, mentre al Ginnasio, pur essendo alunni intelligente, quasi geniale, subisce punizioni, sospensioni, persino bocciature. Un anno, rimandato a settembre, alterna il lavoro manuale in campagna a Podenzano per l’intera estate e poi all’esame se la cava senza difficoltà.
Ma Barbiellini che fu “enfant terrible” della scuola, è il medesimo che sarà “padrone” di numerose lingue straniere, soprattutto francese, come la sua tesi di laurea ma conoscerà molto bene, tedesco, inglese, arabo, persiano ed ebraico. Ma ebbe anche una solida “impalcatura umanista” intrattenendo fitte relazioni con Pirandello, Baldini, Trilussa.
Dopo un breve periodo presso l’Accademia navale di Livorno da cui viene estromesso perché va contro- scrisse Molinari- le perversioni mostruose di un ufficiale, si iscrisse al Politecnico dove lo sorprende l’entrato in guerra dell’Italia. Così lui ardente frequentatore di club futuristi e nazionalisti, si arruola volontario a 19 anni; ferito il 16 giugno del 1916, rimane su fronte; è un soldato coraggioso ma anche insofferente verso gli alti graduati; le sue eccellenti prestazioni di soldato e di patriota, si nutrivano degli antichi ideali di Dio, patria e famiglia.
Rientrato dal fronte, con il grado di tenente, di fronte al dilagare degli scioperi, schifato dai “pescecani di guerra”, decide di arruolarsi il Libia dove rimane per due anni, da dove tornerà con il grado di capitano e con una grande voglia d’azione”.
Ma com’era la situazione a Piacenza nel primissimo dopoguerra? Insomma l’anno si chiudeva in modo veramente disastroso e la notizia della fine della guerra e la vittoria non potevano certo mascherare la tragicità della situazione.
In quell’anno si era verificato un incremento diffuso dei prezzi ed erano aumentate le imposte, nonché ulteriori gravami sui prodotti destinati al consumo. Si erano verificati continui intralci nella distribuzione, cresceva l’irritazione dovuta al razionamento, alla censura, alle difficoltà alimentari ed alle manovre degli speculatori. Si era in tal modo creato un clima di tensioni sociali che avevano determinato scontri tra dimostranti e forza pubblica, non a Piacenza, ma in città vicine, e le notizie avevano comunque alimentato un clima di già pesante insoddisfazione.
Nonostante la spaventosa situazione sociale, sembrava però che in questi frangenti il senso di solidarietà fosse cresciuto. Certo il primo comandamento era quello di sopravvivere, ma anche tra poveri nessuno chiudeva gli occhi sui bisogni degli altri e ciascuno donava per quel che poteva a chi non aveva proprio nulla. Il Comune rilasciava appositi buoni con i quali ci si poteva recare in negozi convenzionati per l’acquisto. Grazie ad una serrata trattativa, si convinse il comandante del Distretto ad aprire, una volta la settimana, il magazzino della sussistenza sito in via dell’Abbondanza (paradosso dei nomi) per distribuire, a chi si presentasse con una distinta del Comune, farina, carne in scatola, pasta.
La guerra aveva dunque messo a durissima prova l’economia piacentina ma il settore agricolo non ne uscì malissimo grazie all’uso dei concimi chimici (sospeso durante il conflitto) e dei nuovi macchinari, con produzioni di frumento e granturco elevate, così barbabietola e pomodoro “Ma alta produzione - sottolinea Molinari - non significava benessere per tutti. Le condizioni della montagna, per esempio, divennero pessime; mancavano infrastrutture, assistenza sanitaria, edifici scolastici e riprese pertanto forte l’emigrazione. L’industria languirà per vari anni impegnata nella complessa riconversione: costi altissimi delle materie prime, mercato contratto, barriere doganali estere. Solo verso il ’20 tornano a produrre i bottonifici e le fabbriche conserviere e saccarifere, mentre ci sono grosse difficoltà per l’industria metalmeccanica e quella edile. Ma già dal 21 e ancor di più nel ’22 si ha un primo avvertimento di un profondo malessere, con numerosi fallimenti, prezzi dei generi alimentari aumentati dal 100 all’800% ed alloggi liberi sempre più introvabili. Dal punto di vista sociale Piacenza è ancora simile all’anteguerra risultando costituita da copiosa e differenziata piccola borghesia, piccoli possidenti terrieri, industriali, commerciati ed una ristretta oligarchia latifondistica; poi un proletariato, sovente minacciato dalla disoccupazione. I ceti popolari urbani erano falcidiati dal carovita, quelli impiegatizi, con il costante rischio di divenire parte del proletariato da cui si distinguevano perché al loro rientro ritrovano altri al loro posto. Infine - sottolinea Molinari - ci sono molti professionisti che dopo la guerra hanno perso la loro clientela”.
Insomma sotto il pungolo di queste inquietudini la piccola e media borghesia cittadina si compatta e si vede non protetta, se non respinta, dalle classi più elevate, gli “arricchiti dalla guerra” ma non vuole certo identificarsi con le aspirazioni rivoluzionarie del proletariato. In questo contesto il fascismo porrà le sue basi.
Dal 1920 entrò in scena Barbiellini che, agli ideali futuristi, associava cattolicesimo di antica ascendenza familiare e pugnace patriottismo. Lo fece con la consueta personalità prorompente, fondando nel febbraio del ’21 il settimanale “La scure”.
(prosegue)