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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Mestieri di una volta: barcaioli, sabbiaioli e la “dinastia” di “Palèi” Bori

I recenti sopralluoghi dei nuovi assessori comunali Mancioppi e Putzu sulle rive del “grande padre Eridano” mi hanno quasi costretto a riprendere il filo dei ricordi su ciò che il fiume ha rappresentato per secoli per i piacentini

Era naturale: i recenti sopralluoghi dei nuovi assessori comunali Mancioppi e Putzu (a proposito buon lavoro, perché l’impegno è davvero rilevante!) sulle rive del “grande padre Eridano” per concordare strategie tese a riqualificare l’area del Lungo Po divenuta, soprattutto alla sera (ma anche nei fine settimana),quasi terra di bivacco, mi hanno quasi costretto a riprendere il filo dei ricordi su ciò che il fiume ha rappresentato per secoli per i piacentini. sabbiaPo4-2

Scrivo nel mio romanzo storico “Il cappello di nonno Gesuino” che troverete a fine agosto ed a settembre nelle librerie ed ambientato anche a Piacenza tra ‘800 e ‘900: "Il Po - gli disse Bisi all’osteria sopra via Mazzini, in una zona per fortuna non toccata dall’inondazione dove si erano recati a bere un bicchiere per cacciare in qualche modo l’umidità- è un padre buono, quasi sempre, ma, come in questa occasione,  qualche volta s’arrabbia ed allora puoi solo scappare. Ma pensa che, tutto l’anno ci dà persici, trote, carpe, tinche, anguille, lucci, i gamberi e gli storioni, ma quelli i pescatori li vendono ai ristoranti della Piazza e noi non sappiamo neanche quanto siano buoni. Ma quando va bene, poi, all’osteria, c’è il pesce fritto, quello che non si è riusciti a vendere, gratis per tutti e vino. Così il “grande padre” ci mantiene, ci dà la legna per scaldarci in inverno e per cucinare tutto l’anno; i ragazzi in estate vivono nelle boschine che sono una discreta alcova per le coppiette. Insomma qualche giorno di tribolazione, per anni di abbondanza e di assistenza. Per questo credo che neanche quando ci viene a visitare a casa, il Po vada maledetto".

Scusate l’autocitazione, ma mi sembra emblematica per sottolineare che questo legame spezzato da decenni, debba essere riannodato ed il Po e le zone circostanti vadano restituite ai piacentini. E sono convinto che se lungo le sue sponde operassero ancora barcaioli e sabbiaioli, come tanti anni fa, il problema del degrado e della maleducazione, sarebbe stato risolto nel giro di mezz’ora, senza strepiti ne chiasso, secondo le consuetudini non scritte dei contradaioli della Piacenza popolaresca.

Ciò premesso, trattiamo stavolta degli antichi mestieri lungo il Po, ovvero dei barcaioli e dei sabbiaioli e della “dinastia” dei Bori.

Non ho conosciuto, per ovvie ragioni anagrafiche, il mitico “Palèi”, ma il figlio Carletto. Quando lo incrociavo nel suo “regno” di fianco alla Nino Bixio, non mancava mai di chiedermi di salutare mio padre Oliviero, perché era nato come lui, qualche anno prima, al n° 100 di via S. Bartolomeo.

I barcaioli operavano in territorio rivierasco lungo il Po, sovente padroni e garzoni al tempo stesso. Si univano in piccoli gruppi per trasportare ghiaia, sabbia o altro materiale sfruttando nella discesa la corrente fluviale e risalendo con energiche spossanti remate. A piedi, con a tracolla uno spallaccio che si inseriva a distanze regolari  su un’unica fune, procedendo talvolta di notte o più spesso alle prime luci dell’alba per contrastare la calura estiva, trascinavano una pesante barca (magana)su cui stava alla guida uno di loro per giungere sul luogo stabilito. Percorrevano un sentiero detto l’alzaia, collocato sugli argini del Po.

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Sul posto, mediante grossi mestoloni, scavavano sul fondo del fiume, estraendo sabbia e ghiaia che venivano passati in grandi setacci per la selezione.

A carico completato, la barca, sempre sfruttando la corrente con i remi, scendeva al luogo di partenza. Poi con apposite “barelle”, camminando su un’asse, trasportavano il carico dalla magana alle barre che attendevano il carico. Gran parte veniva poi conferito ai Sier per i mattoni. Solo più tardi (attorno al 1940) gli uomini si servirono di cavalli da tiro, utilizzando barconi attrezzati a motore. Ma sempre fatiche improbe, quasi titaniche, rimanevano!.

Una particolarità del loro abbigliamento era questa: per essere più agili nei movimenti e scendere facilmente in acqua, portavano sulle brache una lunga camicia. Un cappello, un berretto o un fazzoletto legato alle quattro cocche completavano l’insieme. E’ superfluo dire che camminavano a piedi scalzi e che avevano fatto robusti calli sulle asperità dell’alzaia ghiaiosa. Ne trattò anche l’Artocchini in un suo volume.

Tra le figure più caratteristiche di questo mondo scomparso indissolubilmente collegate alla vita del Po, dobbiamo menzionare “Palèi” Bori e quelli della sua famiglia che proseguirono questa attività, soprattutto il figlio Carlèi.

Quella dei Bori fu schiatta secolare di sabbiaioli e pescatori, alla stregua di quella dei Borsotti, dei Pantaleoni, dei Quagliaroli,, dei Bernardelli, dei Galliani, dei Morelli, tanto per citarne alcuni, i cui capostipiti si smarriscono nelle brume del passato, allorché le acque del maestoso fiume erano solcate da natanti di tutti i tipi.

Con la memoria, le testimonianze dei più anziani risalivano fino a Biasèi Bori, padre di Palèi e nonno di Carletto, di cui tratteremo successivamente.

Mestieri di una volta: barcaioli, sabbiaioli e la “dinastia” di “Palèi” Bori

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