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Venerdì, 19 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Il cinema a Piacenza dagli anni ’50: il boom e poi il declino

Sul palcoscenico del Politeama si esibirono anche celebri artisti della lirica, tra cui i piacentini Italo Cristalli, Piero Campolonghi, Gianni Poggi, Flaviano Labò, ma anche star della rivista come Macario, Rascel, Totò, Nino Taranto, Carlo Dapporto e Wanda Osiris

IL PROIEZIONISTA
A Remo Cravignani (“Il Remo”), Giuseppe Ferrari (Pinetto) e Enrico Leonardi (Enrico).

Un pomeriggio come gli altri.
Guardo un film in mkv sullo schermo del mio computer. Da tempo non accendo la televisione, pur pagando un canone che è un oltraggio al buon senso visto ciò che questo schermo collegato a un’antenna mi propina. Non vado al cinema seduto in sala dal 2004 quando, incuriosito dal regista, sono andato a vedere “una lunga domenica di passioni”, titolo tradotto orribilmente, di Jean Pierre Jeunet. Quando mi capita di vedere vecchi film, degli anni tra i ’60 e gli ’80, mi ricordo delle sale in cui l’ho visto o l’ho proiettato, della gente che allora le popolava a tal punto che Dino Risi, a Vittorio Gassman in “Anima persa”, faceva dire “Come sono vuote le chiese. Solo i cinematografi sono pieni. È lì che la gente va a confessarsi”. A questo pensavo in un pomeriggio anonimo come tanti, in cui stanco per il continuo alternarsi di giornate primaverili ad altre autunnali che mi rendevano incapace di concentrarmi su altro, mi guardavo un film italiano del 2016. Pensavo che quel modo di proporre contenuti per immagini, quel modo di fruire, non mi apparteneva più. Fu così che mi venne in mente di scrivere qualcosa, ricordi soprattutto, per rendere una testimonianza di un tempo, di una mentalità, di persone non più in vita, ormai perduto per sempre, come accade a chi guarda le fotografie dell’Archivio Bettman che ritraggono gli operai sull’Empire State Building allora in costruzione.

Conobbi il cinema tramite il mio nonno paterno, colonnello della Fanteria destinato ad essere promosso generale,  quando avevo sei anni. Era una sala oggi scomparsa, come tante e troppe, che si trovava di fianco alla chiesa di San Sepolcro, che faceva parrocchia e comprendeva una zona molto popolare e per usare termini odierni, “difficile”, gestita dall’ordine dei Salesiani che avevano messo in piedi una struttura atta a tenere bambini e ragazzi lontani dalla strada. C’era un oratorio con bar, due campi da calcio, un cinema all’aperto e uno al chiuso, quello in cui ero entrato, che fungeva anche da teatro, oltre che vere e proprie aule, con tanto di banchi e sedie, per il catechismo. C’era anche una stanza con il pianoforte per improbabili riunioni di un coro che non ho mai visto né sentito. Tutto questo per oltre un centinaio di bambini e ragazzi disciplinarmente difficili da contenere, ma con una spontaneità e soprattutto un codice morale che, magari discutibile, rispettavano.


Ricordo che, alla cassa, il biglietto costava 30 lire, ma non il titolo del mio primo film perché guardai al massimo tre o quattro sequenze, incuriosito com’ero dalle due finestrelle della cabina di proiezione dalla quale da una usciva un enorme raggio luminoso che si muoveva in continuazione facendo cambiare le immagini dello schermo e dall’altra si poteva intravedere il viso di una persona che a tratti guardava il film e a volte armeggiava vicino a quella macchina misteriosa che il film lo proiettava. Quel cinema si chiamava “Fumeo”, forse in omaggio a una nota casa che costruiva proiettori cinematografici dal 1959, ma tutti lo chiamavano “San Sepolcro”. Per farla breve, completamente disinteressato al film che tutti gli altri seguivano con passione, chiesi a mio nonno di portarmi nel posto da dove “usciva il film”.

Il proiezionista, che tutti chiamavano “quello che fa il cinema” e pochi, tecnicamente, l’operatore, era don Claudio, uomo robusto che da solo riusciva a tenere a bada anche cinquanta bambini solo con lo sguardo, perché aveva mani che sembravano badili, sempre pronte a calarsi sugli indisciplinati. Ricorderò per sempre la cabina di proiezione, quell’odore, il proiettore enorme, un Prevost p40, lo stesso usato da Tornatore nella prima parte di “Nuovo cinema Paradiso”, quella in cui il proiezionista non è ancora Totò, ma Alfredo. È sorprendente come il regista, ex operatore anche lui, sia riuscito a rendere l’atmosfera di quella macchina che per un bambino di sei anni aveva qualcosa di assolutamente magico: da ferma era misteriosa, con tante leve, pulsanti, manopole, rocchetti e una manovella. Accesa sviluppava una luce bianca, fortissima e come veniva avviata a regime faceva un baccano notevole. Magia pura.

 
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