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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Il cinema a Piacenza dagli anni ’50: il boom e poi il declino

Sul palcoscenico del Politeama si esibirono anche celebri artisti della lirica, tra cui i piacentini Italo Cristalli, Piero Campolonghi, Gianni Poggi, Flaviano Labò, ma anche star della rivista come Macario, Rascel, Totò, Nino Taranto, Carlo Dapporto e Wanda Osiris

Non c’era solo don Claudio che “faceva il cinema”: mi pare ce ne fossero altri due e farmi accettare da loro non fu facile; ricorsi a degli stratagemmi, tipo passare comunicazioni dalla cassa, portare manifesti e i “provini”, chiamati più propriamente “presentazioni” e oggi, in virtù dell’anglo-colonizzazione subita, “trailers”. Passai sei mesi senza toccare nulla, solo a guardare, cercando di capire ogni movimento, ogni dettaglio di quella macchina e non solo: i film arrivavano in rulli che poi occorreva assemblare nel loro corretto ordine, pena immagini capovolte, audio al contrario oppure sequenze che si invertivano. Due o tre rulli formavano una bobina, il famoso “primo” o “secondo tempo” che poi andava riavvolto e riproiettato.

Dopo sei mesi, mi fu concesso di utilizzare la macchina in una proiezione di prova, quella che ogni film doveva passare, con don Claudio o il prete di turno seduto in sala. Solo apparentemente quella proiezione avveniva per assicurarsi che il film fosse stato montato correttamente: in realtà, doveva passare la censura del prete, che ordinava puntualmente, picchiettando sul vetro della finestra di proiezione, indicando il punto d’inizio e di fine del taglio: erano interessati alla censura baci, carezze, scollature, danze orientali e simili. I tagli venivano poi messi da parte e reincollati alla pellicola in fase di smontaggio, cioè quando a film finito di proiettare veniva nuovamente ridotto in rulli, inscatolato e riconsegnato al corriere.

Rimasi in quel cinema fino all’età di 14 anni, guardandomi praticamente tutti i film classificati “per tutti”, o più tecnicamente di categoria da I a II classificati dal Centro Cattolico Cinematografico. Ho visto tutti i peplum, i cartoni animati di Hanna & Barbera, tutti i western americani di John Waine e parte di quelli italiani, i cosiddetti “western spaghetti”, termine che andrebbe eliminato dai libri di cinema perché eccessivamente spregiativo. Ho avuto tra le mani e ho assemblato personalmente “Per un pugno di dollari” e “Per qualche dollaro in più”, per citare i due più famosi che ho amato allora (ma anche oggi). Film proiettati due volte, alla proiezione delle 14, delle 16, che avveniva solo se la sala non conteneva tutti al primo spettacolo. Un ricordo particolare va a “Il giorno più lungo”: tre ore di film smontato a mano nel senso che l’avvolgifilm, l’attrezzo che veniva usato per riavvolgere la pellicola, montare e smontare il film, si era rotto per cui lo dovetti arrotolare a mano impiegandoci otto ore.


La cabina, e più avanti imparai che quello era prerogativa di tutti i cinema “a prescindere”, era un forno d’estate e una ghiacciaia in inverno dove tornava molto utile la lanterna, vale a dire quella parte del proiettore deputata a fare da sorgente di luce per la proiezione. A quei tempi, gli anni ’60, la lanterna era a carbone, cioè conteneva due “grissini” di carbone ricoperti di rame che fungevano da elettrodi in modo da costituire l’arco voltaico. Il calore che generava era simile a quello di una stufa e, purtroppo, occorreva starle vicino costantemente perché i carboni si consumavano e occorreva tenerli a una distanza fissa tramite apposite manopole. 
Non si poteva abbandonare il proiettore per più di un minuto pena un abbassamento della luminosità sullo schermo, se non addirittura il buio, cosa che accadeva quando tra i due carboni la distanza si faceva eccessiva. Vero è che c’era il cosiddetto “avanzamento automatico”, una vite senza fine con un motorino che li faceva avanzare automaticamente, ma era inaffidabile e al massimo consentiva all’operatore una lontananza dal proiettore per non più di due minuti, cinque al massimo nei proiettori dei cinema nobili, quelli di prima visione di cui tratterò tra breve.


Oggi è impensabile anche perché la pellicola non esiste più, ma a quei tempi il film aveva una vita lunghissima e andava trattato con ogni cautela: terminato il ciclo di proiezione nei cinema di prima visione, passava a quelli di seconda nel giro di un anno, poi a quelli di terza e di quarta, dopo di che raggiungeva le sale parrocchiali. Non si poteva rigare, non si doveva strappare in proiezione e le giunte, fatte prima con una miscela a base di acetone e poi con un nastro adesivo studiato espressamente per lo scopo, dovevano essere perfette. Quando un film veniva restituito, c’erano presso i magazzini le verificatrici che, con un tavolo passafilm munito di piatti su cui venivano riavvolti i rulli, controllavano lo stato della pellicola e i fotogrammi con uno speciale contatore: se ne mancavano, partiva la contestazione e le relative multe. Impossibile tenersi un pezzo di film per sé, anche se di una decina di centimetri.
I film giravano per tutta la regione e la loro età la giudicavi dalle ammaccature sulle scatole di metallo e sulla loro lucentezza. Partivano nuove, perfette come la carrozzeria di un’auto nuova, e via via si deformavano con ammaccature più o meno rilevanti fino ad arrugginire. I proiezionisti migliori erano nei capoluoghi di regione e i più bravi riuscivano a proiettare lo stesso film anche per un anno intero senza farlo mai rompere, tenendo i proiettori in condizioni perfette. Non ho vissuto l’epoca delle pellicole infiammabili, quelle costituite da un composto di nitrocellulosa al 10/11 per cento di azoto plastificata con canfora: dalla sua combustione, se disgraziatamente avveniva, si sviluppava un gas che, mischiato in certe proporzioni con l’aria, finiva per diventare esplosivo. Ho conosciuto quelle ininfiammabili, in triacetato di cellulosa che, anziché prendere fuoco si scioglievano, fondendosi.
Approssimativamente un film durava dieci, quindici anni e per tale periodo veniva sempre proiettato. Nel 1967, al Fumeo, ricordo “Noi siamo le colonne”, con Laurel e Hardy, uscito nel 1940. Venne poi il polyestere, studiato per reggere gli sforzi di trazione dei proiettori di ultima generazioni che vedremo: teoricamente il polyestere avrebbe dovuto e potuto anche rappresentare la fine delle rotture della pellicola in macchina e, quindi, avere una vita più lunga. Soprattutto, avrebbe evitato a chi vedeva un film vecchio la pena di immaginarsi i dialoghi interrotti e troncati dalle troppe giunte dei film in triacetato.

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