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Martedì, 23 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Un poeta dialettale dimenticato: Vincenzo Capra

Il Capra (1816-1886), “poeta ed operaio”, è caduto nel dimenticatoio

Nel recente articolo dedicato all’avvento dell’illuminazione a gas e poi elettrica a Piacenza, abbiamo citato un’ode (non una poesia, proprio perché celebra un avvenimento civile) del poeta dialettale Vincenzo Capra datata 1857 quando, in una memorabile sera di marzo, Piacenza fu come illuminata a giorno. Globi di candida luce adornarono piazze e vie principali. Rischiarato dalla viva luce del gas che dissipò le tenebre medievali, il secolo romantico si avviò a divenire la “belle époque” che trarrà dall’alone dei fanali una fonte viva di emozioni e trasalimenti sentimentali.

Subito dopo l’inaugurazione, il poeta vernacolo Vincenzo Capra, conscio del singolare valore civico dell’avvenimento, celebrò con un inno, improntato alla vis carducciana, le figure dei pionieri del gas illuminante.

Il Capra (1816-1886) era stato definito “poeta ed operaio” in una approfondita tesi di laurea pubblicata dallo Stabilimento tipografico piacentino di Lino Gallarati (con cui ho avuto il piacere di collaborare a lungo, non solo in occasione dei due volumi della Piacenza popolaresca e con quelle dedicato alle Vecchi osterie di Piacenza, ma anche quando era presidente degli Amici dell’arte) redatta da Carla Castagnetti Cassinis.

A lei, dopo la sua repentina scomparsa, aveva dedicato una coinvolgente prefazione all’opera la nota e stimata ricercatrice prof. Carmen Artocchini.

Il Capra, nella sua lunga ed articolata ode stampata presso “Domenich Tajaferr”, si compiaceva “dello splendore della luce bianca senza fumo né odore di brucio, che oltre a mettere in fuga gli uccelli notturni, teneva a freno anche i birbanti che operavano con il favore delle tenebre”. Quindi il poeta prospettava la meraviglia dei nostri vecchi di fronte ai prodigi della scienza, facendo un parallelo tra la vita di un tempo paragonata a quella attuale (siamo nel 1857!!!) e metteva in risalto i vantaggi che gli studi e la tecnica recano con sé. Insomma un inno alla scienza, alla novità ed al progresso.

Oggi Capra, a differenza di Faustini e Carella, è caduto nel dimenticatoio più assoluto; c’è solo una via (quella che conduce da via La Primogenita a via Roma) a ricordarlo, quella stessa dove tanti anni fa era collocata l’osteria dal Bambèin.

Eppure il Capra, al di là di ogni valutazione sulla silloge poetica, con le sue liriche si occupò di avvenimenti e personaggi della sua epoca. Forte il suo patriottismo, ed è pertanto un prezioso testimone di una Piacenza che fu, rimasta del resto ferma, immobile nel carattere dei nostri concittadini, come allora! Ne volete la conferma? Per stigmatizzare e scuoterli dal loro individualismo e della lentezza a muoversi, il Faustini scriveva: “Piasintein, durmiv ancura? So! Ca sona al noss quart d’ura! Ma bisogna c’as dasduma:ca scrullum cla lorgna ac guma” che tradotto significa Piacentini dormite ancora? Su che suona il nostro quarto d’ora, Ma bisogna che ci svegliamo e ci scuotiamo addosso quell’indolenza che abbiamo.

Non è da meno il Capra che nella “la politica all’osteria” annotava:” Ma noi sum dal sassan vrum alvas so, an fa gnanca un pass, s’an gh’è i andarò”, cioè ma noi siamo del sasso, non vogliamo alzarci, né fare un passo se non abbiamo le dande.

Ed il Marchesotti concorde ne “I Piasintein” sosteneva:” Sum ad natura un brisei fredda, cust è vera, ma c’al creda, c’an sum miga tant indré, cmé sertoin i vann adrè”, ovvero siamo di natura un po’ fredda, questo è vero, ma creda che non siamo tanto ignoranti come certuni vanno dicendo”. Lo scrivevano i nostri “maggiori” tanto tempo fa sul carattere dei piacentini. E' forse cambiato? Ai posteri l’ardua sentenza!

Ma torniamo al nostro Capra. Solo il 26 gennaio 1886 il quotidiano piacentino “Libertà” nella rubrica dell’anagrafe dava notizia della morte, avvenuta all’ospizio Vittorio Emanuele, di Vincenzo Capra, portiere, di 70 anni. In realtà, colui che era considerato un valido poeta dialettale dell’Ottocento, seppur minore…, era morto nella notte tra il 19 ed il 20 gennaio nel ricovero piacentino dove era stato ospitato alcuni giorni prima in seguito ad una grave malattia agli occhi che ne aveva causato la cecità totale.

Non si conosce molto della sua vita, solo quello che lui stesso evidenziava in alcune composizioni le quali ci permettono di seguire le vicende della sua esistenza travagliata, sia per le precarie condizioni fisiche che economiche. Malauguratamente- sottolineava la Castagnetti-Cassinis- in uno dei suoi opuscoli più importanti a questo proposito (Proverbi piasintȇin cun vari puesìi - Lunari par l’ann nov 1873), le pagine dalla 35 alla 38 sono strappate e pertanto una parte consistente della vita del Capra non si potrà mai conoscere.

Dalle notizie contenute nel Lunario e da altre che emergono qua e là nei suoi versi, risulta la sua passione per lo studio, desiderio che non poté soddisfare in quanto la sua famiglia era talmente povera  che, dopo avergli lasciato frequentare “due scuolette”, lo mise a lavorare; ma poiché era piuttosto debole di occhi, dovette accontentarsi di un lavoro “da morire di fame”, ossia il “calzittȇin”, il fabbricante di calze e berrette, mestiere talmente in disuso e mal remunerato che quasi nessuno lo esercitava più.

Mentre svolgeva il suo umile lavoro tuttavia continuava ad istruirsi, al leggere con frenetica curiosità: libri, poesie, opere di classici fra i quali predilesse il Metastasio. Tentò anche di comporre in versi in italiano ma poi passò a quelli dialettali che gli erano più congeniali e che gli diedero, come lui stesso affermò, una “certa soddisfazione”.

Il suo ritratto fisico lo si desume da alcuni accenni contenuti nella medesima pubblicazione: era alto, un po’ curvo, di colorito pallido; certi particolari fisici in cui si dilunga (fronte bassa, naso grosso, occhi miopi, mento lungo, barba rada, capelli folti e castani, ormai sul grigio, collo corto, petto largo, stomaco buono senza difetto, mani piccole) ci fanno automaticamente pensare ad alcuni sonetti autobiografici del Foscolo di cui dovette certo conoscere le opere.

Prosegue il Capra dicendo di sé di “avere carattere piuttosto focoso, cuore sensibile e generoso, aperto, facile a stabilire rapporti di fratellanza con brava gente e voce buona, parlare svelto. Effettivamente - soggiunge la studiosa - il poeta era un tipo schietto e coraggioso, pronto a dire quello che pensava, a tenere testa i prepotenti e per questo “certa gente - per sua asserzione - non lo poteva vedere”.

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