Le eccellenze della sanità piacentina: il laboratorio di biologia molecolare diagnostica e predittiva dell'Ausl
Situato nel nucleo antico dell'Ospedale ne è responsabile il Alessandro Ubiali
Molto stimolante è stata la visita al LABORATORIO DI BIOLOGIA MOLECOLARE DIAGNOSTICA E PREDITTIVA del nostro ospedale con la possibilità di dialogare con il dottor Alessandro Ubiali, Responsabile della struttura che - nell’ambito della Unità Operativa di Anatomia patologica, Primario dottor Adriano Zangrandi e rientra nel Dipartimento di Oncoematologia diretto dal professor Luigi Cavanna - opera in stretta collaborazione con la dottoressa Serena Trubini, Biotecnologa e la dottoressa Monica Scuri, Tecnico Sanitario di Laboratorio Biomedico.
Dotato di strumenti scientifici innovativi per lo studio del DNA dall’inizio attività (2007), ha erogato più di 6500 referti molecolari che rappresentano altrettante indicazioni diagnostiche e terapeutiche per i relativi pazienti. Il laboratorio, oltre alle patologie neoplastiche oncologiche ed ematologiche, si occupa di disordini ematologici pre-neoplastici (malattie mieloproliferative, leucemie croniche e linfomi), malattie autoimmuni del rene e della cute, di tumori solidi più diffusi (mammella, polmone, colon e cute/melanoma) e della predizione di tossicità del composto 5-Fluorouracile nelle chemioterapie. La maggior parte delle malattie, neoplastiche e non, ha una eziologia legata all’accumulo di una o più alterazioni (“mutazioni”) del DNA, evidenza il dottor Ubiali. Nella maggior parte dei casi, la mutazione è “somatica”, ossia acquisita nel corso della vita a causa di fattori ambientali, come fumo, inquinamento, presenza di radicali liberi, ecc. In misura minore, esistono fattori genetici ereditari, ossia mutazioni che predispongono la persona all’insorgenza della malattia. Nei tumori, la terapia chirurgica, spesso permette un intervento radicale, dopo cicli di chemio o radioterapia adiuvante, ma, in molti casi, il tumore può essere localmente avanzato, o in metastasi e quindi, non operabile. In questi casi, che rappresentano circa la metà dei tumori diagnosticati, ci si avvale di tecniche, tecnologie, e farmaci nuovi, in costante evoluzione.
Un recente video elaborato da AUSL di Piacenza, ha conseguito il terzo premio a livello nazionale, in un contesto promosso dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) che paragona la lotta al tumore ad una partita a scacchi: ogni pezzo ha il suo ruolo e le sue mosse per arrivare finalmente allo scacco matto. Il laboratorio fornisce tre tipologie principali di informazioni ai clinici. La prima è quella diagnostica precisa il Responsabile: rilevando la presenza di una determinata anomalia nel DNA, aiuta il medico patologo a caratterizzare meglio la neoplasia, ossia descrivendone più a fondo le caratteristiche e quindi inquadrandola nella corretta classificazione. La seconda informazione è legata alla prognosi, prosegue il dottor Ubiali, ossia alla previsione sul decorso e soprattutto sull'esito di un determinato quadro clinico; anche in questo contesto, il DNA può darci delle informazioni preziose sul futuro comportamento più o meno aggressivo della malattia. Quindi, il clinico sarà in grado di prevedere, a grandi linee, il decorso del tumore e intervenire con un’adeguata strategia terapeutica. Molte mutazioni in geni chiave per l’insorgenza e lo sviluppo di diversi tumori, rappresentano fattori prognostici negativi: è il caso, ad esempio, delle mutazioni del gene BRAF nel carcinoma del colon o del gene KRAS in quello del polmone. Il laboratorio è in grado anche di fornire la predizione di risposta alle nuove terapie farmacologiche. Queste permettono oggi, nei tumori non operabili, di affiancare alle radio e chemioterapie tradizionali potenti armi molecolari, in grado di bersagliare selettivamente le cellule che presentano determinate alterazioni molecolari (terapie mirate, “biologiche”, o “targeted therapies”).
Le mutazioni, identificate dal biologo molecolare, sia nel tessuto neoplastico prelevato dal paziente, che nel sangue periferico (“biopsia liquida”), guidano lo sviluppo tumorale, ed è per questo che i corrispondenti geni prendono il nome di “driver genes”. La ricerca applicata, ha elaborato molecole in grado di bloccare i vari driver genes, uccidendo le cellule tumorali. Purtroppo, dopo mesi o anni, insorgono nuove mutazioni che permettono al tumore di riprendersi il terreno perduto. Allora si usano farmaci di generazioni successive, diretti verso le nuove mutazioni, allungando ulteriormente la vita al paziente. Accanto a queste terapie mirate, esiste una nuova categoria farmacologica di recentissima introduzione nella pratica clinica, l'immunoterapia, ossia l’utilizzo di farmaci specifici in grado di “risvegliare” il sistema immunitario del paziente, che reagirà contro il tumore. Si tratta di farmaci che non colpiscono direttamente le cellule malate, ma agiscono stimolando l’immunità propria del soggetto. La scoperta, rivoluzionaria, è stata premiata con i Nobel per la Medicina assegnati nel 2018 a James P. Allison e a Tasuku Honjo. Ogni giorno il sistema immunitario di un adulto elimina da alcune unità ad alcune decine (negli anziani) di cellule almeno potenzialmente tumorali. Tuttavia, quando il tumore raggiunge una certa massa critica, esso sviluppa nuove mutazioni e trova un ambiente adatto alla sua crescita. A questo punto, spesso produce sulla superficie delle sue cellule una grande quantità di recettori PD-L1, che sono come “antenne” in grado di interagire con i linfociti T del sistema immunitario, “spegnendoli” e quindi impedendo loro di uccidere le cellule tumorali. Se con tecniche di biologia molecolare siamo in grado di dimostrare che il tumore esprime molto PD-L1 e/o attira molte cellule del sistema immunitario, potremo usare un farmaco che blocca questi recettori. In questo modo, il tumore non spegne più i linfociti, che svolgeranno correttamente la loro funzione antineoplastica. A qualche anno dall’introduzione di questi farmaci immunoterapici, in un tumore di difficile approccio come quello del polmone localmente avanzato o metastatico, essi si sono rivelati efficaci in circa un paziente su sette. Questo gruppo di malati ha potuto beneficiare di un notevole allungamento della sopravvivenza, ormai valutabile in termini di anni.