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Cronaca

«Fermati e derubati da Hezbollah che ci ha preso per spie»

Oltre un'ora nelle mani del Partito armato libanese, la testimonianza del giornalista piacentino Gianfranco Salvatori: Dopo un tentativo di reazione, anche i soldati sono riusciti a mantenere la calma e con loro i giornalisti, evitando il peggio

“Perche siete qui? Voi non dovreste essere in questo paese”. Il miliziano di Hezbollah non ha usato mezzi termini nel rivolgersi a giornalisti e soldati fermati e bloccati (oltre che derubati delle macchine fotografiche, dei cellulari e di alcuni materiali prelevati dai mezzi dell’Onu, tra cui la radio di uno dei veicoli dell’esercito) per oltre un’ora, il 6 gennaio, in un piccolo villaggio del sud del Libano: Ayta al Shaab,a pochi chilometri dal confine israeliano. Un nome di importanza storica per il Libano. Fu da qui, infatti, che nel 2006 cominciò l’invasione israeliana del Libano, intervento che voleva stroncare le aggressioni a colpi di razzi contro i villaggio di Israele da parte di Hezbollah. Da allora, la pace è stata mantenuta dalla missione Unifil. «Ma il miliziano non si è fidato e ha pensato fossimo tutti spie. Nel giorno dell’Epifania, però, qualcosa si è rotto».

Pubblichiamo la testimonianza del giornalista e fotografo piacentino Gianfranco Salvatori di Citynews, e cronista del Piacenza.it, che ripercorre quei drammatici istanti.

«Eravamo in viaggio di ritorno alla base di Shama, dove si trova il comando del settore Ovest della missione Unifil, a bordo di due VM 90 (mezzi di trasporto dell’esercito) dipinti di bianco e con le insegne Onu. A bordo quattro giornalisti, sei soldati e un tenente colonnello. Non era una pattuglia o un altro tipo di missione: i soldati avevano scortato reporter e fotografi a vedere la messa greco cristiana di Ayroun e quella cristiano maronita di Rmeich. Tornando, un maledetto errore, ci porta in quel piccolo paese, reso quasi invisibile dalla pioggia fitta, dalle nubi basse e dal freddo».

Missione Onu in Libano, le immagini

«Un uomo trae in inganno i veicoli indicando una strada che si rivelerà poi un vicolo stretto di circa 80 metri di lunghezza in cui il gruppo resterà intrappolato. Lo stesso uomo si pone davanti al primo mezzo e impone l’alt prendendo in mano una grossa pietra. I soldati italiani frenano e subito un’auto si pone di traverso, seguita da un’altra, sbarrando il passo. Lo stesso avviene nella parte posteriore della strada. Poche persone cominciano a circondare i mezzi. Ma in un attimo la stradina si riempie di gente, donne e bambini compresi. Tra cui uno, la cui figura resterà indelebile: aveva la camicia di boy scout e sul taschino l’immagine di Khomeini, il leader rivoluzione sciita iraniana che mise fine al regno dello scià nel 1979».

IL COMANDANTE: «PRIMA AGGRESSIONE AGLI ITALIANI, E' INQUIETANTE»

«Con decisione, i soldati vengono fatti scendere, mentre l’ufficiale, primo a scendere, continuava la propria opera di mediazione. Un ufficiale con grande esperienza di missioni di peacekeeping nei Balcani insanguinati. I fotografi bolognesi Mario Rebeschini e Rossella Santosuosso, con la collega Elisa Murgese, di Radio Popolare, vengono fatti scendere e ripuliti subito dell’attrezzatura fotografica. Io, no. Resto al mio posto. Non sono stato notato o considerato. Alcuni uomini entrano nel mezzo e cominciano a perquisirlo, smontandolo, prendendo la radio, tirando fuori a forza una ragazza, un giovane caporalmaggiore, che cercava di difendere la radio. Le armi vengono ignorate così come lo sono stati i soldi. Non i veicoli che vengono quasi smontati con cacciaviti, pinze e martelli. Si cercano oggetti elettronici per attività di spionaggio. Ma non ce ne sono. La tensione cresce e una trentina di persone si sono radunate. Noto che una donna velata viene portata a perquisire le donne, in perfetto rispetto dei principi dell’Islam. Anche i soldati vengono perquisiti e depredati dei cellulari. La zona è comunque sorvegliata da alcuni “supervisori” che coordinano l’operazione da terra e da alcune finestre di case vicine».

«Poco dopo, sembra che gli stessi miliziani abbiano chiamato l’esercito libanese (Laf, Lebanese armed forces). Il colonnello italiano ha sempre contnuato a trattare. Dopo un  tentativo di reazione, anche i soldati sono riusciti a mantenere la calma e con loro i giornalisti, evitando il peggio. Arriva la pattuglia libanese. Breve conciliabolo di un ufficiale libanese con uno dei sequestratori. Poi arriva il colonnello italiano. La tensione sembra calare del tutto quando spunta un osservatore canadese di una missione dell’Onu. E qui, se la situazione non fosse stata drammatica, il gesto sarebbe stato beffardo: i libanesi si presentano a soldati giornalisti con del caffè».

«I due mezzi, con le undici persone incolumi, invertono la marcia e tornano a Shama. L’adrenalina dei sequestrati comincia a scendere. Scattano le misure di sicurezza e i contatti ad alti livelli del comandante del settore Ovest, il generale di brigata Antonio Bettelli. Telefoni alzati, intelligence al lavoro e specialisti mobilitati per capire che cosa sia accaduto e che significato possa avere il primo agguato alle truppe italiane sotto bandiera Onu, le più amate dalla popolazione palestinese. Giovani soldati che avevano accompagnato alcuni giornalisti a vedere la famosa tolleranza religiosa presente nel Paese dei cedri, dove è usuale ammirare una chiesa vicina a una moschea e dove non ci sono mai stati episodi di aggressione legati al credo religioso».

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