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Martedì, 16 Aprile 2024
Cronaca

Gli agenti che scoprirono la “Uno Bianca”: «Qualcuno sbaglia, ma la polizia sa reagire»

Luciano Baglioni e Pietro Costanza, i due investigatori che consegnarono alla giustizia la Banda della Uno Bianca, in città per parlare agli allievi della scuola di polizia. Costanza: «Si è poliziotti anche fuori dal servizio: non è un mestiere, ma una missione. È una passione di un uomo che mette a disposizione sé stesso per la società»

«Un buon poliziotto e un buon investigatore devono essere scrupolosi, umili, non lasciare niente al caso e – soprattutto – essere onesti». Luciano Baglioni e Pietro Costanza, i due agenti che hanno individuato i componenti della banda della “Uno Bianca”, che ha imperversato dal 1987 al 1994 a Bologna e nella Romagna, hanno fatto visita a Piacenza per raccontare la storia di quell’indagine finita sulle pagine di tutti i giornali dell’epoca e nell’immaginario collettivo. I due agenti – su iniziativa del Siap, il sindacato guidato dal segretario Sandro Chiaravalloti – hanno incontrato nel pomeriggio del 5 novembre gli allievi della scuola di polizia di Piacenza.  

«Costanza e Baglioni – ha introdotto i due ospiti Chiaravalloti – sono qui per lanciare un messaggi a tutti gli allievi. È un convegno formativo che non vuole dimenticare che, all’interno della polizia e delle forze dell’ordine, ci sono anche le “mele marce”, combattute dalla parte “bella” della polizia». «Siamo qui a Piacenza – ha spiegato l’ispettore capo Baglioni - per ricordare gli errori fatti in passato da qualcuno di noi che possono essere utili per il futuro: dobbiamo continuare a chiederci “cos’è la polizia e cos’è la giustizia”. La maggior parte delle persone si impegnano nel loro quotidiano, sulla strada, ma qualcuno ha sbagliato e anche molto.  È la prima volta che parliamo a dei componenti della polizia di questa storia. Non vogliamo passare da eroi. Abbiamo scritto un libro - "Baglioni e Costanza" di Marco Melega edito da La Mandragora - solo per portare il pubblico a conoscenza di quanto è avvenuto».

I due investigatori riuscirono nell’impresa di consegnare alla giustizia una banda che uccise 24 persone e ne ferì 114 in 103 azioni criminose senza mai lasciare una traccia di sé o un indizio sul proprio cammino. Baglioni e Costanza, studiando la “mappa” delle gesta feroci e assurde di una Banda che colpiva banche, supermercati, distributori di benzina e poste – uccidendo anche diverse forze dell’ordine - riuscirono a intercettare un’auto sospetta davanti a un possibile obiettivo. Annotata la targa, scoprirono il luogo di residenza della persona al volante: Fabio Savi, sicuramente il più spietato della banda. In un secondo momento, capirono che Fabio era fratello di un collega: Roberto Savi, della questura di Bologna. Ad aiutare ed assecondare la malvagia di questi due criminali, altri tre poliziotti: Luca Vallicelli, Pietro Gugliotta e Marino Occhipinti. Una scoperta tremenda: quattro su cinque erano “sbirri”, colleghi.

«In polizia – ha raccontato l’assistente capo Costanza, ora in pensione - abbiamo gli anticorpi, vogliamo far passare questo messaggio: anche al nostro interno reagiamo. Questo lo diciamo soprattutto alla nuova generazione di agenti, sperando che le brutte esperienze vengano assimilate. Le nuove leve devono capire e comprendere ciò che è successo. Si è poliziotti anche fuori dal servizio, non è un mestiere, ma una missione. È la passione di un uomo che mette a disposizione sé stesso per la società».

La storia si è chiusa con l’arresto – e l’ergastolo - dei principali responsabili. «La stessa polizia ha saputo reagire e assicurare i colpevoli, in questo caso una banda di alienati mentali. Siamo andati in confusione quando abbiamo scoperto che c’era dentro un poliziotto, ovvero Roberto Savi, aiutato da altri colleghi». «Già – prosegue Baglioni -, lì abbiamo preso un po’ di paura: sui giornali e in giro si parlava di servizi segreti deviati e coinvolti, pensavamo di finire in mezzo a una cosa grande. In realtà dietro alla Banda, come detto da Fabio Savi una volta, c’era solo la targa e i fanalini dell’auto che usavano per le rapine». I due si dicono soddisfatti di aver dato una risposta ai familiari delle vittime. «È più importante per noi l’affetto e la gratitudine dei familiari che qualche stretta di mano delle autorità. Abbiamo ricevuto lettere da loro e siamo diventati cittadini onorari di Ruvo di Puglia, cittadina d’origine di uno dei colleghi uccisi. Questi sono stati gesti che ci hanno fatto piacere».

Rimane ancora, a distanza di anni, lo choc per una serie di atti criminosi. «Sparavano a caso – ricorda Costanza - per sfidare chiunque si metteva sul loro cammino. “Siamo i padroni e nessuno ci può mandare a quel paese”, questo era il pensiero comune della banda. Nella loro mente bacata tutti gli omicidi erano giustificati: durante il processo per ognuna delle vittime avevano una spiegazione precisa, un ricordo del momento dell’uccisione». La Banda della Uno Bianca è stata un lungo elenco di gesti efferati e morti ammazzati brutalmente.  «Erano pazzi – spiegano insieme i due agenti - onnipotenti. Hanno rapinato più di due miliardi di vecchie lire. Erano soldi che gli servivano per vivere bene. Fabio – che al processo ha spiegato per filo e per segno tutto - l’aveva preso come un lavoro».Uno Bianca-2

«Giravamo le banche – spiega Costanza - per capire quale avrebbero colpito nell’immediato futuro. Fabio Savi faceva rapine da 500milioni e la settimana dopo magari ammazzava un benzinaio per 500mila lire. Ammazzavano anche per poco, lo facevano per adrenalina, per ricaricarsi. Sono entrati in un vortice di onnipotenza, più loro commettevano queste scorribande gratuite, più si sentivano pompati. Nei fratelli c’era una componente mentale deviata di partenza: erano molto razzisti».

Sicuramente, tra tutte le indagini, questa è stata la più delicata. «Devo capire io stesso se è uno colpevole o innocente – precisa Costanza - devo accertarmi e convincermi. Altrimenti si rischia di rovinare la vita a tante persone. Abbiamo lottato per salvare gente innocente dalla galera. Tutti si ricordano la Uno bianca ma abbiamo fatto insieme una sessantina di indagini». «A Bologna – aggiunge l’ispettore capo Baglioni - sono state arrestate tante persone, alcune condannate all’ergastolo per fatti che non c’entravano nulla con la Banda: c’erano coincidenze che hanno provocato gravi problemi di giustizia, oltre a una volontà di arrivare in fretta a una conclusione e “prendere un premio”. Prima di arrestare una persona bisogna essere sicuri che sia colpevole».  

Un ruolo che è stato molto indagato dai giudici e scandagliato dei media fu quello delle donne della banda. Tutte sapevano e nessuna ha mosso un dito per denunciare. «Non difendo – dichiara un amaro Baglioni - le mogli e le donne della banda. Eva Mikula – la compagna straniera di Fabio Savi, giovane e dagli atteggiamenti esuberanti, nda – era a conoscenza di tutti i fatti così come la moglie di Roberto. Deve essere giudicata come le altre. È stata condannata solo per aver rubato 450 milioni di lire a Fabio. Certo…se lei o una delle mogli avesse parlato subito, gli episodi di cronaca si sarebbero fermati già nell’87». Due investigatori di provincia che mettono in scacco una delle bande più feroci e imprendibili della storia italiana. Un esempio per i giovani allievi della scuola di polizia perché rappresentano ciò dovrebbe essere un buon investigatore: «onesto, umile e una persona che non tralascia mai niente in ogni indagine che compie».

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