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Cronaca Porta Galera / Via Gaspare Landi

Addio a Roberto Rovellini, testimone di guerra: dalla Libia all'India, memoria storica del conflitto

Si è spento a 97 anni l'ultimo piacentino prigioniero degli inglesi in Sri Lanka. Visse il Secondo conflitto mondiale in prima linea, tra Africa e Oriente. Poi il ritorno a casa, l'officina meccanica in via Colombo e la poesia vernacolare

«Il giorno più bello e sospirato. Era un giorno di sole. Il primo giorno di lavoro. Non mi sentivo più prigioniero. Ero libero». In India quel 21 marzo 1944 faceva caldo. Caldo davvero. E Roberto Rovellini, 97 anni, quel giorno lo ricordava bene. Solo qualche mese prima una radio gracchiante, gli ufficiali inglesi che fanno radunare i prigionieri, il regime fascista che crolla. «La guerra sta finendo. Potete stare qui senza far nulla. Oppure potete aiutarci, dandoci una mano, e collaborare». E Roberto non si tirò indietro. Come sempre. Disse sì. E divenne meccanico ufficiale del campo. Prima del ritorno a casa.

Si è spento mercoledì nella casa di via Gaspare Landi, serenamente, attorniato dall'affetto dei tre figli, Marco, Stefano e Andrea. Era una delle ultime testimonianze 'piacentine' dirette della Seconda guerra mondiale, conflitto che Roberto affrontò dal primo all'ultimo giorno. Date, eventi, scontri; tutto impresso, marchiato a fuoco in una memoria granitica che mai l'ha abbandonato fino agli ultimi giorni. Storie che mise nero su bianco in quaderni dalla prosa agile e puntigliosa. «Il primo giorno del mio servizio militare è iniziato il 18 marzo 1940... », e via a snocciolare ricordi. 

Prima Alessandria, 11esimo reggimento artiglieria someggiata ippo-trainata. Poi l'addestramento, Napoli, e via per la Libia. Soldati stipati sul bellissimo transatlantico 'Conte Rosso', che di regale, ormai, aveva ben poco. Caldo e sudore, docce sferzati dagli idranti, sguatteri sui ponti. «Dalle palme capì che eravamo arrivati in Africa», raccontava con sorriso. Ma da sorridere ci sarebbe stato ben poco nelle settimane successive. Già, l'Africa. Terra di conquista facile facile a parole. Distesa di morte infuocata nei fatti. 

Sparatorie sulle litoranee con gli inglesi, proiettili che fischiano a pochi centimetri dalle orecchie. Lui, Roberto, con la Benelli a tutto gas per portare a casa la pelle. La pelle era salva. Non il proprio capitano. O gli altri compagni. Gli alleati radunarono nel deserto gli italiani rimasti e sconfitti; una gavetta in mano, una pagnotta e un bicchiere d'acqua. Tre giorni di marcia verso Tobruk per raggiungere l'Aquitania, un'altra immensa nave della Cunard Line presa a prestito dalla guerra. Destinazione Colombo, Ceylon, l'odierno Sri Lanka. 

In quell'isola fagocitata dalla vegetazione, Roberto e gli altri prigionieri arrivarono al campo, un grande spiazzo sormontato da mastodontici ibiscus, banani ed eucalipti. Ci rimase per mesi e mesi, fino alla fine del conflitto bellico. Decise di non stare con le mani in mano, tra partite a carte e sonnolente passeggiate al sole. Imparò l'inglese fino a diventare «assistant teacher», ricordava con orgoglio, e mise a frutto le sue abilità di meccanico per aggiustare jeep e mezzi alleati. All'inizio non tutti capirono. Era solito raccontare le offese, le scritte che trovava nei bagni al suo indirizzo: «Traditore anti-italiano». Ma per lui alternative non ce n'erano. Il rispetto lo si guadagnava col sudore, il lavoro, la fatica, questo gli avevano insegnato, non distesi su un'amaca a lamentarsi. E quell'esperienza gli si rivelò utile per tutto il resto della vita. 

Tornò a casa. Nel Piacentino, e non solo, il suo garage-officina di via Colombo era l'unico dove gli stranieri potessero trovare un meccanico che parlava inglese. Trascorse qui il resto dell'esistenza fino alla pensione, tra apprendisti, carburatori e motori ingolfati. Insieme alla moglie Pasquina, deceduta qualche anno orsono, lavorò sodo per permettere ai tre figli di studiare e laurearsi con merito. Lavoro, chiesa, famiglia; mai questo trinomio ebbe come in lui piena espressione. E se c'era da tendere la mano, lo faceva. Con chiuque. Non chiedendo mai il perchè o un tornaconto.

Fervente cattolico, attivista in Sant'Anna e Corpus Domini prima e San Paolo in anni più recenti, si dilettò, una volta ritiratosi, con la poesia vernacolare. Ogni anno partecipava al concorso della Fondazione di Piacenza e Vigevano. Veniva invitato (e letto) nelle scuole cittadine. Uno dei suoi componimenti più riusciuti parlava dell'«Angil dal Dom», quel puntino dorato, lassù, che domina Piacenza. Libero. Come è, ed è sempre stato, Roberto. 

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