«Quello che non ha funzionato a Codogno»
«Sono un’indignata cittadina di Codogno, parte di una categoria che nessuno vuole vedere, perché nessuno sembra guardare oltre i contatti del contagiato 1 o dello “stile di vita sotto quarantena” da mandare in diretta in qualche bella trasmissione tivù. Ma Coronavirus siamo anche noi, ovvero tutti i frequentatori del reparto di medicina a Codogno nelle giornate esposte. Nella data maledetta di giovedì 20 febbraio mi reco con mio padre (62 anni e già visitatore in precedenza) in visita ad una zia degente da settimane presso l’ospedale di Codogno, reparto medicina. Sono più o meno le 18 ed in reparto vige una strana e surreale atmosfera: tutti i medici e gli infermieri indossano mascherina e camminano a muso lungo parlottando nei corridoi. Ma il reparto funziona ed è aperto: tuttavia, come si saprà, vi era/vi era stato dal giorno precedente il contagiato1, infetto o potenzialmente tale (innanzitutto, perché non chiudere il reparto già che sapevate del rischio?). Anzi, il primo contatto del contagiato1 con l’ospedale di Codogno, quindi con medici, infermieri ed operatori, avviene già la domenica precedente, in pronto soccorso. Naturalmente quel giovedì sera noi, ancora ignari e forse troppo fiduciosi, ci chiediamo semplicemente il perché di tale misura e portiamo a termine la visita. Non manca molto a scoprirlo e domenica 23 febbraio arriva l’ulteriore mazzata. La figlia della zia ricoverata risulta positiva al virus. Si trova ricoverata presso un ospedale emiliano. È da allora che allertiamo tutti i numeri sanitari, senza ricevere uno straccio di considerazione e nonostante la presenza di un primo sintomo febbrile e di tosse. Eppure siamo stati in reparto nelle ore del contagiato 1, abbiamo salutato, baciato e abbracciato la degente in questione (io addirittura usato il suo stesso telefono dopo di lei). La zia nelle ore immediatamente precedenti, come per tutta la settimana, aveva ricevuto visite dalla figlia positiva (la quale aveva passato ore ed ore in reparto con lei), oltre che probabilissime cure dagli stessi medici/infermieri del primo contagiato. Ad oggi il tampone della degente è latitante: eseguito la domenica, ma non pervenuto. Insomma, ci sono diversi nuclei famigliari coinvolti in questa catena, ma una sola questione: dobbiamo vivere aspettando di stare male prima o poi? Cosa bisogna aver fatto per rientrare nel protocollo di tampone più di questo? Quali criteri ci mancherebbero ancora da spuntare? E le persone che a nostra volta avremmo potuto contagiare? Perché nessuno ci controlla o, per lo meno, rassicura dicendo che, si, siamo soggetti a rischio e che quando ci saranno tempo e mezzi necessari riceveremo a nostra volta i dovuti tamponi? La difficoltà gestionale è più che comprensibile, non mi costa aspettare il mio turno e non pretendo di passare in cima alla lista, quello che non sopporto è il non essere per nulla considerati. Esistiamo ed abbiamo una giustificata ansia, qui ed adesso. È possibile che allo stato attuale i famigliari ancora non conoscano almeno i risultati della paziente in medicina? Potranno discostarsi poi molto da quelli della figlia? Ed infine, sembra che in tutta Italia si facciano controlli a tappeto, tranne qui, proprio nell’epicentro».
Una lodigiana