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Martedì, 23 Aprile 2024
Cronaca

«Una locomotiva a vapore: l'affannosa corsa della riforma della giustizia»

Una riflessione e un approfondimento sulla riforma della giustizia del ministro Marta Cartabia, a firma dell'avvocato Aldo Truncè, presidente della Camera Penale di Crotone e nell'ultimo anno impegnato come difensore di un carabiniere nel processo Levante a Piacenza

Una riflessione e un approfondimento sulla riforma della giustizia del ministro Marta Cartabia, a firma dell'avvocato Aldo Truncè, presidente della Camera Penale di Crotone e nell'ultimo anno impegnato come difensore di un carabiniere nel processo Levante a Piacenza. 

L’approvazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (P.N.R.R.) ha imposto l’obiettivo di riduzione del 25 % dei tempi dei processi penali. Un obiettivo ambizioso, che si accompagna anche a quello della digitalizzazione e innovazione degli apparati burocratici e dei sistemi di funzionamento della macchina, atavicamente ingolfata, della giustizia italiana. Siamo di fronte ad uno scenario inedito, perché dopo decenni costellati da mini riforme, anche a colpi di decretazione d’urgenza, assistiamo invece ad una riforma che ha la pretesa di presentarsi come organica, agendo su più fronti, nel perseguimento di un fine ultimo, che non è più quello di scongiurare le odiose sanzioni comminate all’Italia dall’U.E., ma quello di non lasciar scappare i cospicui fondi messi a disposizione con l’approvazione del P.N.R.R. Se, insomma, prima la preoccupazione era quella di dover sborsare denari, adesso la spinta propulsiva della riforma della giustizia è invece quella di accaparrarsi i fondi comunitari, e, soprattutto, di mantenerli, e perché ciò accada è necessario che siano raggiunti realmente i risultati prefissati, è necessario, cioè, che i processi durino concretamente meno. Ideare in così poco tempo una strategia di risoluzione efficace di problematiche vetuste, non è stato affatto facile, ed il Ministro Cartabia ha dato prova di saper costruire una cornice solida da portare in Parlamento.

aldo truncè avvocato-2Il fine ultimo della riforma, quello sporco danaro che serve moltissimo per la ripartenza dell’intero Paese, rischia però di distogliere l’attenzione su ciò che dovrebbe essere il vero oggetto di ogni produzione legislativa in materia di giustizia penale: l’imputato, che è al centro del processo assieme alle garanzie che mai dovrebbero essergli negate. Il Paese è spinto dall’esigenza di cambiare drasticamente quelle statistiche che ci pongono sempre come fanalino di coda nell’efficienza della risposta di giustizia, ma qui il rischio è che la giustizia penale venga gestita come un’azienda che deve produrre e performare, creando però un prodotto di qualità discutibile. La preoccupazione maggiore è quella della durata dei processi, attorno a cui ruotano tutte le scelte intraprese, come l’ampliamento del patteggiamento o dei casi di declaratoria della tenuità del fatto, il “bonus” di riduzione di un sesto di pena per chi rinuncia all’impugnazione e via discorrendo, ma non è ancora chiaro quali saranno le strategie per consentire di abbattere i tempi processuali più lunghi, quelli dell’appello.

Indubbiamente la digitalizzazione avrà un ruolo centrale nell’implementazione dell’efficienza, così come le prossime 21.000 assunzioni mese in cantiere nel settore giustizia, ma se la Commissione Europea per l’efficienza della giustizia osserva che in Italia, un processo in appello dura in media 876 giorni, non è ancora chiaro come la durata di quel processo verrà abbattuta del 25 per cento, posto che l’attuale testo uscito dalla Camera dei Deputati prevede una durata massima di due anni (e dunque con una riduzione inferiore al 25% dei tempi di durata) che è un tempo superiore rispetto a quello prefissato con l’approvazione del P.N.R.R. Bisognerà vedere anche quale sarà la sorte dei processi di primo grado, che secondo gli accertamenti della Commissione Europea ad hoc ha una durata media di 310 giorni. Con la prescrizione che potrà maturare solo in primo grado, c’è il rischio che questi tempi possano dilatarsi, dal momento che il processo sarà comunque “salvo” anche ben oltre quei 310 giorni di durata media, visto che la prescrizione per i delitti meno gravi è attualmente pari a sei anni, senza tener conto delle sospensioni.

La vulgata, però, è che stia passando una sorta di “impunità” per i reati più gravi, perché evidentemente è molto lo scetticismo nella futura reale durata del processo d’appello in due anni, salvo i correttivi delle proroghe previste per i reati appunto, di maggior allarme sociale. Se l’esigenza è quella di fare le cose all’insegna della reale efficacia, c’è però questa spada di Damocle dei tempi da rispettare, che alle soglie di Ferragosto sta riscaldando gli scranni del Parlamento per discutere di qualcosa di estremamente importante, non solo per il futuro della giustizia, ma per le sorti economiche e sociali della Repubblica, perché al treno in corsa della giustizia, si sono accodati gli altri vagoni che portano dentro la necessità di una reale ripresa, al di là della resilienza, che pare, abbiamo già largamente dimostrato. La speranza è che questa lunga locomotiva arrivi, in orario, a destinazione.

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