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Martedì, 23 Aprile 2024
Cronaca Pianello Val Tidone

Rocchelli: Markiv assolto, «Nessuna prova che fosse in servizio durante l'attacco ai giornalisti»

La corte d'Appello di Milano accoglie però la ricostruzione di primo grado («a sparare furono gli ucraini dell'esercito e della guardia nazionale»). Le motivazioni dell'assoluzione

Sarebbero stati l'esercito e la guardia nazionale ucraini a sparare al gruppo di giornalisti uccidendo il fotoreporter pavese Andrea Rocchelli (che si stabilì a lavorare a Pianello in Valtidone con alcuni colleghi del "Cesura Lab") e l'attivista dei diritti umani russo Andrei Mironov, nonché ferendo il fotografo francese Wiilliam Rougelon, il 24 maggio 2014 a Sloviansk. Ma non vi è prova oltre ogni ragionevole dubbio che Vitaly Markiv, unico imputato per quell'azione, vi avesse preso parte attiva, né che si trovasse in servizio nel momento degli spari, né che la sua posizione fosse proprio quella individuata dalla procura di Pavia durante le indagini e il processo di primo grado. E' quanto emerge dalla sentenza della corte d'assise d'Appello di Milano (presidente Giovanna Ichino), depositata il 21 gennaio, dopo la pronuncia d'assoluzione del 3 novembre 2020. Markiv, nel frattempo, dopo tre anni e quattro mesi di carcere, durante i quali era stato condannato a 24 anni nel 2019 dal Tribunale di Pavia in primo grado, è tornato in Ucraina.

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La corte d'Appello milanese aderisce dunque in gran parte alla ricostruzione dei fatti elaborata dai giudici di primo grado. Accglie in particolare che la guardia nazionale e l'esercito ucraini siano stati i primi a sparare, mentre erano asserragliati a difesa della collina di Karachun e fronteggiavano ogni giorno i separatisti supportati dalla Russia in Donbass e in particolare proprio a Sloviansk, che in quel periodo era tra i punti di combattimento più "caldi". I giudici di secondo grado ritengono anche che vi fosse «l'intenzione di eliminare» il gruppo di fotoreporter, perché per «difendere strenuamente quella posizione» (strategica: sulla collina vi era un'antenna televisiva) si faceva in modo che «nella zona circostante nel raggio di uno o due chilometri nessuno potesse avvicinarsi».

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Credibile l'articolo del Corriere («al di là delle parole utilizzate»)

Di conseguenza i giudici di secondo grado accolgono anche il contestatissimo "pezzo" pubblicato dal Corriere della Sera online il giorno successivo (nonostante le discrepanze tra i due giornalisti che avevano assistito in viva voce alla telefonata con Markiv, preliminare allarocchelli-2 stesura), in quanto «al di là delle singole parole utilizzate» ("capitano", "torre" e così via) è coerente con le altre testimonianze: gli ucraini, durante l'operazione anti-terrorsismo contro i separatisti, erano intenzionati a difendere la collina (e l'antenna), unico luogo di Sloviansk da loro controllato, al limite «sparando contro "tutto quello che si muoveva", anche se non si trattava di aggressioni armate».

«Furono gli ucraini a sparare ai giornalisti»

Dunque, per i giudici d'Appello, così come per quelli di primo grado, i giornalisti per almeno dieci minuti dall'arrivo poterono scattare fotografie indisturbati; nel frattempo dalla collina erano stati avvistati, con segnalazione dai militari della guardia nazionale ai loro capi e da questi ai capi dell'esercito; a quel punto venne dato l'ordine alla guardia nazionale di sparare con i Kalashnikov mentre l'esercito iniziava a sparare con i mortai previa comunicazione delle coordinate. Un'azione condotta, scrivono i giudici, senza minacce concrete e quindi «al di fuori delle regole d'ingaggio e in violazione di quanto stabilito dalla quarta convenzione di Ginevra del 1949 per la protezione delle vittime di guerra».

Ammette la corte che «la zona era sulla linea di tiro tra uno schieramento e l'altro», ma aggiunge subito che «i giornalisti di guerra raggiungono proprio le linee del fronte per constatare e poi raccontare e informare l'opinione pubblica su ciò che avviene durante i conflitti bellici». E', ovviamente, il loro lavoro, e a loro non si dovrebbe mai sparare. L'ordine fu quindi «illegittimamente dato dai comandanti, perché in violazione delle norme che mirano alla protezione dei civili, ed eseguito dai militari della guardia nazionale e dell'esercito appostati sulla collina».

Solo un'opinone, per la corte d'Appello, il fatto che le macchine fotografiche al collo, da quasi due chilometri di distanza, potessero essere scambiate per armi. L'arrivo con un taxi civile, i movimenti tranquilli (tutti tra loro distanziati), i gesti (scattare fotografie) avrebbero dovuto, per la corte, far propendere per un gruppo inerme e non pericoloso.

«Stava all'accusa provare che Markiv fosse in servizio»

Tuttavia, come si diceva, per i giudici d'Appello non sono sufficienti le prove che «Markiv fosse in servizio proprio nell'orario pomeridiano in cui i fotoreporter venivano uccisi o feriti». Se infatti è acclarato che Markiv si trovasse sulla collina, visti i turni di servizio di quattro ore «era l'accusa a dover provare che l'imputato fosse in servizio tra le 16.30 e le 17.30 del 24 maggio 2014».

E, come è noto, una prova in tal senso non c'era. C'è solo una foto, scattata circa un'ora prima dei fatti, che ritrae Markiv in divisa da combattimento e con un dispositivo di puntamento detto red dot, ovvero un mirino a punto rosso luminoso senza ingrandimento e senza reticolo attacchi: ed è, appunto, di un'ora prima. In ogni caso quella foto non dice alcunché su quanto Markiv avesse poi fatto, e dove fosse, all'orario degli spari contro i reporter.

Non sufficienti nemmeno le prove che Markiv prestasse servizio nella postazione indicata da un video tratto dal suo tablet. Se il soldato ha sempre negato che la sua posizione fosse quella, una conferma era invece arrivata durante la deposizione, in primo grado, di Bohdan Matkivskyi, suo diretto superiore sulla collina, e degli altri membri della guardia nazionale ascoltati al processo; ma, secondo la corte d'Appello, alla luce dell'imputazione, costoro «avrebbero dovuto essere esaminati» come imputati, «alla presenza di un difensore», e non come testimoni a conoscenza dei fatti.

La corte di secondo grado ha quindi dichiarato inutilizzabili tutte le loro deposizioni e, a questo punto, «non è dimostrabile con certezza che Markiv prestasse servizio proprio nella postazione di cui al video tratto dal suo tablet». E «il vuoto venutosi a creare a seguito dell'inutilizzabilità della conferma dibattimentale del suo superiore diretto Matwinsky e delle dichiarazioni di altri militari sul punto non è stato colmato da altro elemento di prova».

«L'avvocato di Markiv non fu oltraggioso»

La parte finale della sentenza è uno "smacco" alla procura generale di Milano e, contemporaneamente, un'affermazione importante della libertà di parola e di opinione anche nelle aule giudiziarie. Durante l'udienza del 23 ottobre, l'avvocato di Markiv, Raffaele Della Valle, aveva espresso valutazioni sull'atteggiamento della corte di primo grado e sul lavoro d'inchiesta e di istruttoria, tanto che la procura generale aveva chiesto la cancellazione di quelle espressioni in quanto «oltraggiose».

Della Valle aveva parlato di possibili "pregiudizi" e "rumors" che avrebbero potuto condizionare il giudice di primo grado, e che «lo preoccupavano»; aveva anche parlato di «mentalità qualunquistica» e di «sciatteria e travisamento delle acquisite carte processuali», nonché di «livore» verso lo Stato ucraino (in certi passaggi della sentenza di primo grado si leggevano svarioni storici come l'indipendenza raggiunta nel 2014 anziché nel 1991, ma anche affermazioni che, a voler dare credito ad una buona fede, dimostravano carenza conoscitiva della situazione di conflitto in essere, peraltro ancora oggi). 

Ebbene, i giudici di Appello hanno respinto la richiesta di cancellazione. Pur evidenziando «la mancanza di eleganza» e pure la «palese gratuità» di alcune delle affermazioni di Della Valle, hanno preferito leggerle «nel contesto di una durissima, ma legittima, critica dei provvedimenti giudiziari adottati nella fase delle indagini o del dibattimento di primo grado e non quali critiche e offese direttamente rivolte alle persone dei magistrati o all'organo da esse rappresentato».

Massimiliano Melley per "MilanoToday"

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