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Cronaca

«La vicenda Levante nel "mondo di mezzo" della Piacenza vischiosa nei rapporti di potere»

Depositate nei giorni scorsi le motivazioni della sentenza del processo in primo grado che vedeva imputati cinque carabinieri della Stazione di Piacenza Levante giudicati con rito abbreviato. Il giudice Fiammetta Modica: «La deriva rappresentata dalla logica dei numeri è stata, e resta, la vera aberrazione che il sistema deve emendare»

«La deriva rappresentata dalla logica dei numeri a discapito spesso della sostanza che ormai contamina ogni contesto, compresa la giurisdizione, è stata e resta la vera aberrazione che il sistema deve emendare, per restituire una risposta effettiva della presenza dello Stato, indispensabile al reale contrasto dei fenomeni criminali». 

E’ con questa frase che il gup Fiammetta Modica ha concluso la stesura delle motivazioni della sentenza del processo che vedeva imputati cinque carabinieri della stazione di Piacenza Levante per i quali la condanna in primo grado è stata letta il 1 luglio 2021 a nemmeno un anno (22 luglio 2020) dall’esecuzione dell’ordinanza di misura cautelare del gip Luca Milani e che ha portato Piacenza, ancora una volta, alla ribalta delle cronache nazionali e non solo, nell’ambito della maxi indagine delle Fiamme Gialle e della Polizia Locale, Odyssèus coordinate dal procuratore Grazia Pradella e dai sostituti procuratori Matteo Centini e Antonio Colonna, di cui si è già trattato ampiamente.  Sono quasi cinquecento le pagine che motivano la sentenza e ripercorrono capillarmente la vicenda che ha visto Giuseppe Montella, Giacomo Falanga, Salvatore Cappellano, Daniele Spagnolo e Marco Orlando condannati a vario titolo per diversi e gravi reati con pene che vanno dai 3 ai 12 anni. Per Angelo Esposito, unico militare a non aver scelto il rito abbreviato, il processo è ancora in corso. Altre figure hanno scelto diversi e differenti percorsi.

A destra il gup Fiammetta Modica all'uscita dall'aula il 14 giugno-2EMERGENZA SANITARIA - «Si approda - scrive Modica - a questa sentenza dopo un processo celebrato nel pieno dell’emergenza sanitaria, quando il Paese soffriva per tragici lutti e imperava l’assoluta incertezza per il destino di tutti sopraffatti dalla drammatica pandemia per il virus Covid-19. Piacenza ha pagato un tributo altissimo che resterà indelebile nella memoria collettiva. Lo sforzo istituzionale è stato quello di dare una risposta di legalità che fosse pronta, a fronte di una ferita aperta e, senza peccare di presunzione, chi scrive è orgogliosa di avere portato a termine in pochi mesi un processo per una vicenda così complessa e difficile che avrà il suo naturale corso in altri gradi di giudizio. La procura di Piacenza ha svolto un lavoro encomiabile non solo in fase investigativa ma condensando decine di interrogatori e la predisposizione di una corposa richiesta di giudizio immediato che ha rivisitato con grande professionalità e onestà intellettuale l’impianto primigenio, tutto in termini sincopati, consentendo la celebrazione rapida del processo».

PRASSI DEGENERATE - «Una chiosa: la vicenda della Caserma Levante – prosegue - può essere ridimensionata e letta come un semplice fatto criminale o può suscitare riflessioni più profonde. Il processo penale per definizione è la sede in cui vengono vagliate le responsabilità giuridiche degli imputati sulla scorta di accertamenti legati alla commissione di condotte umane, non certo le responsabilità di sistema, ma corre l’obbligo di chiudere con una riflessione che sia di auspicabile monito. I protagonisti di questo processo erano quasi tutti carabinieri semplici o appuntati: la truppa, come provocatoriamente sostenuto da alcuni dei difensori; uomini che ormai avevano sdoganato un modo di agire al di fuori delle regole, in una zona franca ove erano ammesse prassi degenerate: violenza, falsi, peculati erano divenuti un ordinario procedere nella prospettiva del risultato investigativo facile, del come detto “cotto e mangiato”, per usare una delle espressioni più ricorrenti di questo processo. Il dato statistico da perseguire ad ogni costo, come testimonianza del controllo di pubblica sicurezza da sciorinare in occasioni istituzionali, avanzamenti di carriera o per avere piccoli congiunturali privilegi». «La deriva rappresentata dalla logica dei numeri a discapito spesso della sostanza che ormai contamina ogni contesto, compresa la giurisdizione, è stata e resta la vera aberrazione che il sistema deve emendare, per restituire una risposta effettiva della presenza dello Stato, indispensabile al reale contrasto dei fenomeni criminali».

PIACENZA, CITTA' DALLE TANTE FACCE - Il giudice Modica nelle prime pagine, prima di entrare nel dettaglio delle singoleIl pool di magistrati: da sinistra Matteo Centini, Antonio Colonna e il procuratore capo Grazia Pradella (foto Gatti)-3 posizioni e dei fatti, scrive: «Coloro che leggeranno gli atti di questo processo si porranno subito l’interrogativo di come sia stato possibile tutto questo. Come gli imputati, nascosti dietro la loro divisa, possano aver imperversato impunemente nella città di Piacenza per così lungo tempo e come si sia rotto questo muro di silenzio per il coraggio di un ragazzo disadattato come Lyamani Hamza che trovava la forza, o forse, la disperazione per parlare».  E ancora, indicativo e di spessore, questo pensiero: «Per la verità, i fatti accertati in questa sede non restano un fatto isolato nella storia della città di Piacenza, nel recente passato altri episodi inquietanti sono stati portati all’attenzione dell’autorità giudiziaria, facendo emergere un preoccupante sistema di illegalità connaturato con il potere, basti pensare all’indagine che coinvolse nel corso del 2013 la sezione narcotici della Squadra Mobile della polizia di Stato per condotte per certi versi simili, e da ultimo al processo a carico dell’ex presidente del consiglio comunale Giuseppe Caruso celebratosi nel 2021, imputato per diversi reati associativi di stampo mafioso, condannato in primo grado, nell’ambito del processo Grimilde a vent’anni di reclusione. Una città dalle tante facce, spesso vischiosa nei rapporti di potere, con una ricchezza diffusa, un’austera alacrità e un perbenismo imperante talvolta con radicate connessioni con il contesto criminale sommerso legato al mercato degli stupefacenti, della prostituzione e, ma non in ultimo, alla corruzione. In questo “mondo di mezzo” si trovava la Caserma Levante, apparente presidio di legalità ma prossima al sottobosco degli informatori e degli spacciatori di stupefacenti in una contiguità, degenerata in osmosi».

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