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Giovedì, 28 Marzo 2024
La sentenza dopo nove anni dal fatto / Via Degani

«Ferma e precisa volontà di uccidere Gambarelli»: 24 anni al presunto assassino latitante dal 2013

L’omicidio di Giorgio Gambarelli avvenne nel 2013 in via Degani. Il presunto assassino, Alì Fatnassi, è latitante da allora. Le indagini erano state condotte dai carabinieri del Nucleo Investigativo. Il pm ripercorre le indagini e chiede l'ergastolo ma decade l'aggravante della premeditazione

È stato condannato a 24 anni di carcere Alì Fatnassi, il tunisino accusato di aver accoltellato a morte nel 2013 il fisioterapista piacentino Giorgio Gambarelli nella sua abitazione in via Degani. Il pm aveva chiesto l'ergastolo (l'accusa era omicidio volontario premeditato) mentre la corte, dopo più di un'ora di camera di consiglio, ha escluso la premeditazione arrivando quindi a una pena di 24 anni.  Fatnassi latitante da allora non è mai stato trovato e si presume si trovi in Tunisia dai giorni immediatamente successivi al delitto, paese che non prevede l’estradizione. Il movente rimane oscuro anche se affonderebbe le radici nei debiti che alcuni nordafricani, tra cui Fatnassi, avevano contratto con il Gambarelli. I carabinieri arrivarono al presunto assassino sia con le celle telefoniche sia con alcune intercettazioni sia, infine, confrontando una traccia di sangue di un soggetto ignoto sul comò della camera da letto. Il Dna ricavato e confrontato con quello del fratello del Fatnassi ha rilevato la stessa linea parentale maschile. 

Nella sua requisitoria il pm Ornella Chicca davanti alla corte d’Assise presieduta da Gianandrea Bussi, ha ripercorso tutte le indagini condotte dai carabinieri del nucleo investigativo e dei militari del Nas e i racconti dei tanti teste che hanno sfilato davanti alla corte. Ha parlato di «ferma e precisa volontà di uccidere» e di come la vittima abbia tentato in ogni modo di difendersi per chiedere infine l’ergastolo senza attenuanti. Gambarelli - ha spiegato il magistrato -, era diventato molto circospetto nell'ultimo periodo prima di essere ucciso tanto che non apriva mai la porta e guardava dalla finestra chi gli suovana il citofono. Aveva ferite da difesa sulle mani e sulle braccia che testimoniano come avesse tentato di salvarsi dall'aggressione che stava subendo e che iniziata in soggiorno è terminata tragicamente in camera da letto (ne danno prova anche tutte le tracce ematiche da "gocciolamento" repertate». E ancora: «Al di là delle ferite mortali (due al collo che gli hanno reciso la carotide) l'autopsia e la relazione del medico legale evidenziano alcune lievi ferite al collo come a provare che l'assassino ha compiuto alcuni tentativi prima di sferrare le coltellate mortali: anche per questo escludo l'impeto ma evidenzio la premeditazione. L'omicida non voleva difendersi in una colluttazione né siamo di fronte a colpi accidentali ma quella di Gambarelli era una morte "organizzata" e preordinata per arrivare all'esito finale che era quello di uccidere e poi di sottrarsi alla cattura. A conforto di questa tesi anche la presenza in alte quantità di antidepressivi che avrebbero reso incapace di reagire la vittima, la porta chiusa, la fuga immediata in treno verso Genova e poi Ventimiglia per arrivare poi in Tunisia e la telefonata alla sorella per la distruzione delle utenze telefoniche. La circospezione e la cautela adottate dimostrano una freddezza incredibile».

dadomo dameli avvocati-2Alla richiesta dell’accusa si è associata la Parte civile con l’avvocato Matteo Dameli che rappresenta la sorella, il fratello e il nipote chiedendo infine tre milioni di euro di risarcimento «per un delitto efferato e premeditato: nel sangue della vittima c’era una quantità almeno 5 volte superiore di un medicinale che se assunto in dose elevate porta allo stordimento»  e ancora «una persona innocente non scappa. Se avesse fatto quello che ha fatto senza pensare non si sarebbe organizzato peraltro rifugiandosi in un paese senza estradizione». Soddisfatto della sentenza, Dameli aspetta le motivazioni per capire le ragioni che hanno escluso la premeditazione.  Nell’arringa difensiva l’avvocato dell’imputato, Emilio Dadomo, ha chiesto l’assoluzione in quanto non c’è la prova oltre ogni ragionevole dubbio che sia stato lui, né quella che Fatnassi sia a conoscenza del procedimento a suo carico richiamando il Caso Regeni o che potrebbe essersi trattata di legittima difesa o di una lite per soldi finita nel peggiore dei modi. Dopo la sentenza ha annunicato l'appello e ribadito che questo processo non doveva essere celebrato. Già ad ottobre 2021 chiese, senza ottenerla, la revoca del decreto di latitanza e la nullità del decreto di rinvio a giudizio perché «Fatnassi non ha mai avuto contezza del procedimento a suo carico e non si è sottratto volontariamente alla giustizia anche perché non si ha la prova dell’avvenuta notifica personale». «L'architrave del processo sono intercettazioni - ha detto - nelle quali però le voci non si distinguono compiutamente. Si rischia la ricerca di condanna invece della ricerca della giustizia. Di certo qui c'è che Gamabarelli prestava soldi a clandestini in stato di indigenza economica e sociale, che soffriva di depressione e usava farmaci». «Inoltre - ha proseguito - siamo sicuri che sia Fatnassi? Costui ha molti fratelli, perciò il Dna di linea parentale maschile potrebbe appartenere ad altri congiunti. Insomma, c'è e rimane il ragionevole dubbio».

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