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Cronaca

«Quando permetti alla mafia di entrare in casa tua, hai già perso tutto»

La testimonianza di un siciliano che ha scelto Piacenza per cambiare vita, dopo aver denunciato Cosa Nostra. «Mi sono trovato a 24 anni davanti a due fosse scavate, per me e mio fratello». La critica: «Mi aspettavo più unità dalla politica sulla vicenda Caruso»

«A 24 anni mi sono trovato davanti a due fosse scavate. Una era per me, l’altra per mio fratello. Volevano buttarci dentro vivi, con la calce». W. (iniziale di fantasia) è un siciliano che da qualche anno vive in provincia di Piacenza, dopo che se ne è andato dalla sua terra. L’uomo, ospite della commissione speciale “antimafia” e per la legalità del Comune di Piacenza, ha lasciato ai consiglieri la sua preziosa e dolorosa testimonianza. Un piacentino adottivo che purtroppo ha toccato con mano l’ingordigia e la ferocia della piovra mafiosa, che ha succhiato sangue alla sua attività, costringendolo a scappare.

«Sono qui a parlare - ha esordito l’uomo - perché vorrei che la mia esperienza negativa si potesse trasformare in qualcosa di buono per gli altri. Mi rendo conto che qui a Piacenza non avete avuto a che fare personalmente con questo mostro. Che Dio vi benedica! La mafia è il tumore della società. La mafia entra, in silenzio. S’impadronisce di un organo, poi ti uccide. Prima di entrare vede tutto quello che hai e quando te ne accorgi, ti ha già tolto tutto. Quando mettono un piede in casa, hai già perso tutto quello che avevi».

Cosa è successo a W.? «Avevo con i miei familiari un market, in Sicilia. Il primo contatto è stato banale. “Loro” sono arrivati da me dicendo che dovevano portare un pacco di alimentari per un amico in carcere. E così glielo facciamo gratis». Ma la richiesta si ripete nel tempo. «Poi hanno chiesto un sostegno a una famiglia che aveva il padre in carcere, un altro contributo alimentare». Da quello a un contributo economico, il passo è stato breve. «Poi, schede telefoniche e la proposta di un pizzo. L’abbiamo rifiutato, ma sono stati capaci di “legalizzarlo”». E come? «Ci hanno imposto l’assunzione di due persone, che regolarmente pagavamo. Non sono mai venuti a lavorare: cosa potevo denunciare? Che avevo assunto due persone?».

In seguito, la richiesta di cambiare assegni. «I primi erano a posto, regolari. Poi con assegni da 30 giorni, 60 giorni, in modo da farti perdere liquidità. E ti suggeriscono gli usurai a cui rivolgerti. Dopo 4 mesi, scopri che gli assegni erano scoperti, ed è ora di pagare gli interessi dei prestiti a queste persone».

La famiglia di W. è numerosa, per questo decidono di aprire una seconda attività con i parenti. «Il secondo market non lo avevamo ancora sistemato che già avevano chiesto il pizzo. Così abbiamo accumulato debiti su debiti. E mi sono trovato con una buca scavata, insieme a mio fratello».

Ma W. denuncia tutto e il processo coinvolge 98 persone, un’intera famiglia di Cosa Nostra. Termina con molte condanne e detenzioni. E lui prova a rifarsi una vita nella nostra provincia.

«Noi siciliani è da una vita che siamo in quarantena per colpa della mafia – è la riflessione metaforica di W. sull’attualità - e ne abbiamo viste tante di maschere e mascherine. Mafiosi con le maschere della Chiesa, delle forze dell’ordine, della politica e anche dell’antimafia. Quando sai di qualcuno in difficoltà, ti dicono tutti di fregartene, di “lavarti le mani”».

Ma bisogna avere la forza di dire “no”. «Il mafioso mette paura perché ha lui stesso paura di essere denunciato, o tradito dai "suoi" e quindi ammazzato. È solo mettendo paura alla mafia che la si riesce a rallentare. Se gli diciamo di “no” e si denuncia, hanno paura, perché sono poi loro a perdere tutto».

Dall’alto della sua esperienza, chiede alla politica di aiutare chi denuncia. «Noi vittime di mafia ci ritroviamo in un vortice di burocrazia che ci blocca l’esistenza. Mi sono ritrovato i conti correnti bloccati, ho dovuto girare troppi uffici. Pensate che sono scappato dalla Sicilia sei mesi dopo il mio matrimonio, mettendo i vestiti nei sacchi neri della spazzatura. Avrei avuto bisogno di un sostegno per farcela, infatti ho passato dei momenti nerissimi, in cui ero in preda alla disperazione».

Cosa è decisivo per invogliare a denunciare e non voltarsi dall’altra parte? «Se io denuncio – dice W. - devo sapere che alle spalle c’è qualcuno forte, perché io non sono nessuno da solo. In una fase di disperazione della mia vita nessuno mi è venuto incontro, li ho dovuti cercare io gli aiuti. Fortunatamente ho poi trovato quattro persone che ho sentito vicine: una dentro la prefettura, una in Equitalia, una in un comune del territorio piacentino e una nei carabinieri. Quattro persone che hanno preso a cuore la questione. Mi telefonavano anche alla mattina per sapere come stavo».

IL RIMPROVERO AI CONSIGLIERI COMUNALI

L’ospite non ha risparmiato una stoccata ai consiglieri presenti, impegnati a discutere del caso Caruso. «Davanti al problema della mafia non ci devono essere gruppi e colori politici, ma solo il bianco, il verde e il rosso del tricolore. L’unità, in questa occasione, non l’ho vista. Se vent’anni fa mi sarei trovato nella vostra sala consiliare, a sentire le vostre parole, prima di fare la mia denuncia, non l’avrei fatta. Se parlate ancora della vicenda Caruso dopo due anni con questi toni, significa che non ne avete discusso all’epoca e affrontato l’esperienza per poi andare avanti».

Per W. si può capire facilmente se uno è un mafioso o no. «Lo capite se avete a che fare con lui. Un mafioso al Nord non è uno che si atteggia a “delinquente”. È un colletto bianco, che ha sempre tanti soldi, che esibisce senza problemi. La mafia qui è professionale, gira in giacca e cravatta, vince appalti. Non è composta da rozzi contadini che sfoggiano la loro delinquenza. Si notano quando offrono subito cifre importanti per comprare un locale, un garage o uno spazio di qualsiasi genere».

C’è un po’ di amarezza nelle parole di W. «Mi aspettavo che ci fosse più unità in questa città sulla vicenda Caruso». «Mi spiace di aver dato al nostro ospite questa impressione – è ha detto il presidente della commissione, il forzista Ivan Chiappa -, se oggi siamo qua significa che stiamo tutti lavorando nella stessa direzione». Christian Fiazza (Pd) e Luigi Rabuffi (Pc in Comune) hanno dimostrato la propria solidarietà nei confronti dell’uomo. «Il primo argine contro la mafia – è il parere di Massimo Trespidi (Liberi) - è fare bene ogni nostra singola attività professionale o amministrativa. Lorella Cappucciati (Lega) ha messo in guardia sul pericolo che possono rappresentare i fondi del Recovery Fund. Risorse talmente ingenti da interessare ovviamente la mafia. «A Piacenza la mafia – è l’appunto di Mauro Saccardi (Misto) - fa le cose in regola. Porta soldi che sembrano puliti e investono. Il Comune potrebbe dotarsi di un ufficio tecnico capace di comprendere queste situazioni». «Non bisogna farsi incantare – è il monito di Michele Giardino (Misto) - dalle “sirene dell’aiuto facile” in questa città».

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