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Cronaca

«Trasmettere i valori della libertà e della democrazia nati dalla Resistenza ai giovani»

Anche Piacenza si ferma e festeggia in piazza il 25 aprile e la Liberazione. La tradizionale cerimonia, iniziata con il corteo da piazzale Genova e la sosta al Dolmen, ha avuto il suo culmine in piazza Cavalli dove hanno preso la parola il sindaco Paolo Dosi e il presidente della provincia Massimo Trespidi

Anche Piacenza si ferma e festeggia in piazza il 25 aprile e la Liberazione. La tradizionale cerimonia, iniziata con il corteo da piazzale Genova e la sosta al Dolmen, ha avuto il suo culmine in piazza Cavalli dove hanno preso la parola il sindaco Paolo Dosi e il presidente della provincia Massimo Trespidi.

Il discorso di Paolo Dosi.
«Ricordo, un anno fa su questo palco, quando il compianto presidente dell’Anpi Mario Cravedi, disse con trasporto e con grande convinzione, che il compito delle istituzioni è quello di trasmettere i valori della libertà e della democrazia nati dalla Resistenza ai giovani. Quest’anno nel ricordare la scomparsa del presidente dell’Anpi, credo che dobbiamo fare nostre le sue parole, senza perdere di vista la storia, il senso di ciò che ha rappresentato per la nostra comunità la guerra di liberazione. Ho letto con molta attenzione un volumetto a cura di Carla Antonini, uscito proprio in questi giorni su “Luoghi e protagonisti della Resistenza piacentina”. Mi Ha affascinato, mi ha fatto cogliere il senso di una lunga storia e di un percorso, quello dagli Appennini al Po, che illustra e spiega la guerra di Liberazione nel nostro territorio. 

Festa della Liberazione ©ilPiacenza

Nel piacentino, la vittoria sul nazifascismo comportò un costo altissimo in termini di vite umane: 627 caduti tra i combattenti e oltre 800 tra la popolazione civile; 154 furono i deportati nei Campi di concentramento in Germania e a Bolzano, 41 dei quali non fecero più ritorno a casa; diverse centinaia gli internati nei campi di lavoro tedeschi. Senza dimenticare i 6mila militari piacentini, catturati in zona di guerra, che subirono la fame, le percosse e le condizioni disumane nei Campi di prigionia in Germania, pur di non arruolarsi nell’esercito fascista.  

Nel corso della Guerra di liberazione, Piacenza e provincia furono teatro di tragici eventi bellici che misero a dura prova la popolazione, che seppe però dimostrare in ogni circostanza il più fervido patriottismo e contribuì in modo determinante alla lotta partigiana e all’affermazione della libertà dalla dittatura nazi-fascista. Tra l'8 settembre 1943 e il 28 aprile 1945, sullo sfondo mutevole e in continuo sviluppo della guerra tra le forze dell’Asse e gli Alleati, il movimento resistenziale piacentino si oppose - con coraggio e determinazione portata sino all’estremo sacrificio - all’esercito tedesco occupante e ai corpi militari della neonata Repubblica fascista. 

Grazie anche al forte legame di solidarietà con la gente di montagna, e nonostante le notevoli perdite subite in uomini e in materiali, le formazioni partigiane piacentine riuscirono a conquistare, nell’estate del ’44, circa i due terzi del territorio provinciale. 

I resoconti ufficiali parlano di circa settemila partigiani piacentini, alla cui guida militare furono Comandanti di diversa provenienza e ispirazione ideale e politica. Ma ancora di più furono i fiancheggiatori, le staffette, i contadini e gli abitanti della montagna che prestarono rifugio, aiuto e solidarietà ai combattenti per la libertà. E che, per questo motivo, dovettero subire rappresaglie, requisizioni e saccheggi feroci ad opera delle camicie nere e delle divisioni della Wehrmacht.

Le valli, i paesi e i cascinali di montagna furono il teatro d’azione della lotta partigiana, che conobbe uno straordinario sviluppo grazie soprattutto al costante e fondamentale rapporto con il territorio. Ad ingrossare le fila delle formazioni partigiane furono in tanti: gli sfollati in fuga dai bombardamenti aerei su Piacenza, i giovani che si rifiutarono di indossare la divisa della Rsi, gli uomini che salirono in montagna per non aderire ai bandi per il lavoro obbligatorio in Germania, i soldati italiani e stranieri che diedero un importante contributo in termini di esperienza militare alla Resistenza. E poi le donne, che rappresentarono una componente fondamentale per il movimento partigiano nella lotta contro il nazifascismo: le giovanissime che ricoprirono il ruolo di staffetta per garantire il collegamento tra le varie brigate e tra i partigiani e le loro famiglie; le operaie e la lavoratrici che, dall’interno delle fabbriche dove avevano preso il posto degli uomini impegnati in guerra, organizzarono scioperi e manifestazioni contro il fascismo; le tante donne combattenti, che lottarono al fianco dei partigiani per riconquistare la libertà e la giustizia del nostro Paese. Fu una guerra civile, è bene ricordarlo, ma fu soprattutto guerra di popolo, di gente che voleva ritrovare la propria libertà, una vita migliore. Perché come ha scritto Primo Levi in un suo volume, Il sistema periodico, “il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia; non aveva soltanto trascinato l'Italia in una guerra ingiusta ed infausta, ma era sorto e si era consolidato come custode di un ordine e di una legalità detestabili, fondati sulla costrizione di chi lavora, sul profitto incontrollato di chi sfrutta il lavoro altrui, sul silenzio imposto a chi pensa e non vuole essere servo, sulla menzogna sistematica e calcolata». 

Ma quanti hanno perduto la vita? Quanti nel nostro territorio hanno compiuto il massimo sacrificio per la libertà? Andrebbero ricordati uno ad uno, ed io desidero ricordare coloro che, nella nostra città, pur di espressioni politiche diverse, hanno perso la vita per un ideale nobile: intellettuali, operai, professionisti, sacerdoti, contadini, tanta gente che ha creduto di combattere per un’Italia migliore. Ne cito alcuni, coloro il cui ricordo è vivo attraverso i cippi e il cimitero urbano.

Penso all’avvocato Francesco Daveri, tra i fondatori della Democrazia Cristiana piacentina e promotore del Cln cittadino, deportato in Germania e rinchiuso nel campo di Gusen II (Mauthausen) dove morì nell’aprile del 1945. Ricordo poi Luigi Rigolli, tra gli organizzatori delle prime bande partigiane in Val Nure e rappresentante del Psi nel Cln provinciale; Alfredo Borotti, che salì in montagna per unirsi ai partigiani della Valdarda, fu catturato nell’inverno ’45; Luciano Bertè, arrestato nel settembre ’44; Angelo Chiozza, operaio presso la Cementirossi, aderente al Pci locale e coordinatore della rete partigiana in città; Piero Bessone, socio attivo del circolo cattolico “Scalabrini” della parrocchia di S. Anna, entrò a far parte della 59esima Brigata partigiana operante in Valnure; Giannino Bosi, Comandante della Divisione “Garibaldi”; Gaetano Lupi, caduto anch’egli vittima della barbarie fascista nel colmo della giovinezza; Cesare Baio, partigiano in Alta Valnure, morì a Colonia nel corso di un bombardamento; Ugo Paraboschi, militante dell’Azione cattolica e Don Giuseppe Borea, cappellano nella Divisione partigiana “Val d’Arda”. Tutti costoro morirono tra il 1943 e il 1945.  Hanno combattutto per la libertà, una parola di cui Enzo Biagi, un giornalista e uno scrittore che ha vissuto i drammi della guerra, ha scritto: “La libertà è come la poesia: non deve avere aggettivi, è libertà”. 

Infine desidero sottolineare, in questa solenne circostanza, la figura di democratico e di cattolico di Giuseppe Berti, partigiano che nel 1944 fu incarcerato con l’accusa di essere il cooordinatore dell’attività clandestina della Fuci; domani in occasione della chiusura dell’Inchiesta diocesana per il processo di beatificazione, Giuseppe Berti sarà ricordato dalle istituzioni laiche e religiose. Un grande piacentino che si è dedicato attivamente e con studi qualificati e profondi alla lotta contro il nazi-fascimo».

Il discorso del presidente Massimo Trespidi
«
Celebriamo oggi il 69esimo Anniversario della Liberazione del nostro Paese dall'occupazione nazifascista e dalla guerra. Qui, insieme, oggi partecipiamo ad una vera e propria festa, a quel 25 Aprile che da ben oltre mezzo secolo simboleggia da un lato l'uscita da una dittatura e da una guerra civile che insieme hanno devastato e ferito nel profondo il nostro Paese e dall'altro l'avvio di un percorso storico culminato con la nascita della Repubblica e la stesura della nostra attuale Costituzione. Ci avviciniamo ad un traguardo importante, quello del settantesimo anniversario, che rappresenta per la nostra comunità e per il nostro Paese un momento fondante. Esiste oggi, nel 2014, l’obbligo morale di ricordare ciò che è stato con lo sguardo attento e vigile verso il futuro. Vigile per l’impellente necessità di tramandare alle nuove generazioni un pezzo di storia e insieme il ricordo di chi ha combattuto per fare in modo che il Paese ritornasse ad essere libero.

Giancarlo Puecher Passavalli era uno di questi combattenti. Ho scelto a caso il suo nome tra le tantissime firme delle “Lettere di condannati a morte della Resistenza”.  “Muoio  - scrive - per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato: spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto... Accetto con rassegnazione il suo volere. Non piangetemi, ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l'Italia.  L'amavo troppo la mia Patria; non la tradite, e voi tutti giovani d'Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale”. Passavalli fu fucilato lo stesso giorno in cui scrisse queste righe, il 21 dicembre 1943, al cimitero nuovo di Erba. Il suo monito è tanto semplice quanto potente. Ma soprattutto è attuale. Nell’estremo momento del dolore questo uomo ha compreso l’importanza della costruzione di un’unità nazionale. Noi, che questa unità l’abbiamo ereditata con il sacrificio di molti, abbiamo perlomeno il dovere di diffondere quello che è stato. Recentemente mi è capitato di leggere una straordinaria lettera del filosofo-partigiano Aldo Braibanti, scomparso lo scorso 6 aprile nella sua casa di Castellarquato all'età di 91 anni, scritta nel 1945 e rivolta al compagno di lotta Gianfranco Sarfatti. In quelle parole emerge forte il senso della Resistenza e soprattutto il valore di ciò che è stato costruito e che non deve essere dimenticato. Scrive Braibanti: “Finalmente conosco la misura reale della lotta di ieri. Le nostre madri, la difesa dei deboli e degli affamati, il diritto alla vita e all'amore: questo voleva dire la nostra battaglia”. E ancora. “Vi era un tale entusiasmo in noi e nei nostri compagni che a volte rasentava l'ingenuità (…) non era il fascino infantile dell'avventura o del pericolo, ma una maturità pensosa superiore ai nostri giovani anni e tuttavia espressa colle forme dei nostri giovani anni. In fondo eravamo contenti: la fede era certezza (...)”.

Responsabilità e impegno. Sono queste le parole su cui occorre riflettere e posare l’attenzione. Oggi più che mai si impone la necessità di abbandonare indifferenza e disimpegno, perché il Paese sta affrontando una fase delicatissima nella quale è in gioco il futuro economico, sociale, lavorativo, culturale di uomini, donne e soprattutto di giovani. Diceva a questo proposito il saggista francese Charles Peguy: “Credo che noi dobbiamo cominciare con l'operare in noi la realizzazione dell'ideale che la nostra vita ha incontrato; prima di ogni discorso, prima di arringare l'universo intero, prima di inventare leggi, prima di edificare Stati, il primo compito - che è anche il più difficile, il più raro - è realizzare l'ideale nella propria vita, nel lavoro che si fa. Non saranno né i discorsi né le perorazioni che cambieranno il mondo, ma il serio approfondimento su di sé, il desiderio di incarnare l'ideale nella concretezza del proprio vivere quotidiano”.

Ci è richiesto dunque uno sforzo congiunto per agire tutti insieme al fine di offrire il nostro contributo al Bene comune nello spirito di un ritrovato orgoglio nazionale. Uno spunto in questa direzione è stato offerto l’anno scorso, in questo stesso giorno, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Tutte queste giornate, anche giornate importanti come questa ricorrenza, sono giornate segnate dalla crisi. Credo che in tutti i luoghi in cui è consacrata l'esperienza e la memoria della Resistenza ci sia sempre molto da imparare sul modo di affrontare momenti cruciali: coraggio, fermezza e senso dell'unità che furono decisivi per vincere la battaglia della Resistenza”. 

Responsabilità e impegno si diceva dunque. Due concetti di cui prima di tutto si devono fare carico gli adulti e i testimoni del tempo al fine di passare il testimone ai giovani. 

Da questo stesso palco, un anno fa, una persona aveva rivolto un invito particolare proprio ai giovani. “Ribellatevi sempre a chi non vuole la democrazia a chi non riconosce il valore del lavoro”. Si tratta di Mario Cravedi, ex presidente provinciale Anpi, scomparso il 14 ottobre scorso. A lui rivolgo oggi un pensiero particolare, ringraziandolo per la passione che ci ha testimoniato e che ha sempre animato il suo impegno e ricordando l'abbraccio che mi rivolse su questo palco il 25 Aprile 2010, il mio primo 25 Aprile da presidente della Provincia.

C’è un’altra persona che voglio ricordare con Voi questa mattina, esempio di attenzione e di guida per i giovani. Sto parlando dell’insegnante Giuseppe Berti, primo presidente dell’istituto storico della Resistenza di Piacenza, per cui proprio domani pomeriggio nella Chiesa di Sant’Anna si celebrerà il rito di chiusura della fase diocesana del processo di Beatificazione. 

Nato a Mortara, in provincia di Pavia, Berti quando aveva sette anni si trasferì a Piacenza con la famiglia. Dopo la Grande Guerra insegnò nelle scuole elementari. All’Università Cattolica di Milano si laureò in materie letterarie nel 1927. Conseguì pure, nel 1936, il diploma in paleografia e archivista presso l’Archivio di Stato di Milano. Al liceo classico “Daniele Manin” di Cremona, insegnò filosofia dal 1938 al 1970. Partecipò alla fondazione del Partito Popolare Italiano, fece la Resistenza e venne eletto deputato al Parlamento Italiano nella legislatura 1948-55. Morì a 80 anni il 7 giugno 1979.  Berti fu un insegnante attento all'educazione dei giovani  ma anche un partigiano e un uomo dal forte rigore spirituale che dedicò e impegnò la sua vita al dono di sé verso il prossimo e al dialogo tra credenti e non credenti nella Resistenza a Piacenza.

La figura di Berti è estremamente attuale e costituisce l’esempio del laicato cattolico impegnato a servizio della comunità. Il vescovo di Piacenza monsignor Gianni Ambrosio lo ha ricordato così in un passaggio dell'introduzione al libro edito in occasione dell'avvio del percorso di Beatificazione: “Essere laico vuol dire appartenere al popolo, farne parte consapevolmente e responsabilmente. Il legame con il popolo significa stare dentro il tessuto delle relazioni sociali, viverle in prima persona, esperimentare le trasformazioni e le tensioni della storia, cogliere i bisogni e le aspirazioni che emergono dal vissuto, dall’esperienza, dalle vicende storiche. Giuseppe Berti ha vissuto pienamente questo suo essere del popolo, nel popolo, per il popolo. Credo che questo raccogliere e tramandare la memoria di Berti non sia solo un dovere di riconoscenza per ciò che questo cristiano ha fatto, ma sia anche un bene particolarmente adatto al tempo in cui viviamo: oggi in particolare abbiamo bisogno di figure luminose, davvero esemplari da ogni punto di vista”. 

Credo sia questo l’esempio da seguire. L’impegno e il sacrificio che segnò fino alla morte la vita e gli ideali di quanti contribuirono a liberare il Paese deve tradursi oggi nella responsabilità dei cittadini di fronte alla crisi che stiamo attraversando. Il nostro Paese e la nostra comunità hanno il bisogno urgente di Liberarsi oggi prima dal pessimismo – primo nemico della rinascita insieme alla mancanza di fiducia -  e quindi dalla recessione economica e sociale. Ognuno di noi è chiamato oggi ad esporsi in prima linea, senza paura e con coraggio per non tradire la preghiera di chi morendo ha lottato per un Paese forte e unito. Per non tradire l’appello di uno dei tanti condannati a morte ai tempi della Guerra. Per non tradire le speranze di tutto il nostro popolo italiano»

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