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Addio a Beha, giornalista scomodo stregato dall’esperienza di Casa Montagna

Ricordo piacentino di Oliviero Beha, cronista scomodo dell’informazione italiana. Nell’agosto 2015 era stato ospite a Casa Montagna Ferriere

Si sono tenuti alle 11 di oggi, lunedì 15 maggio, nella chiesa romana Sant’Angeli Custodi nel quartiere di Montesacro, i funerali di Oliviero Beha, morto sabato sera dopo una breve ma fatale malattia. Alle esequie il mondo del giornalismo e della cultura italiana che ha voluto salutare un cronista “libero e non di rado scomodo del mondo dell’informazioni italiana”, come è stato ripetuto sui social network.

Oliviero Beha era stato ospite a Ferriere di casa Montagna nell’agosto 2015 in una delle giornate cosmopolite organizzate da Carlo Devoti nell’ambito del Festival Internazionale della Gioventù trattando con l’ètoile Liliana  Cosi e il maestro di musica Julian Lombana il tema: “il cibo frutto della cultura e riflesso delle specificità e delle diversità, è uno dei tratti più facilmente riconoscibili dell’originalità dei popoli e delle culture del mondo”. In quella occasione  Beha aveva affermato “non ho mai vista da nessuna parte una situazione in grado come questa, di centrare bellezza e cultura”.

A Ferriere Oliviero Beha aveva ricordato le sue trasmissioni televisive , i suoi libri e le tante cose che in Italia non vanno.  Aveva parlato anche di una storia positiva che aveva avuto protagonista Gino Bartali, pubblicata nell’ultimo suo libro. Non trattava però, le gesta del grande campione sportivo, bensì una storia straordinaria marginale al ciclismo e per la quale “Ginettaccio” nel 2013 è stato iscritto dal Museo dell’Olocausto di Gerusalemme nell’elenco dei “Giusti”. Il racconto tratta del "postino" Gino Bartali che, fingendo di allenarsi, portava documenti per salvare centinaia di vite umane, soprattutto ebrei, da nazisti e fascisti, rischiando, a sua volta, di essere fucilato. Nell'inverno del 1943, Bartali aveva già vinto due Giri d'Italia, un Tour de France, due Milano-Sanremo e tre Lombardia. Mentre le leggi razziali venivano applicate con brutalità in Europa, circa quindicimila ebrei raggiunsero l’Italia per trovare rifugio. È in quel momento che il campione diventò una sorta di staffetta al servizio della rete clandestina Delasem. Appunto finse di allenarsi mentre, in realtà, trasportava documenti falsi, celati nei tubi del sellino e del manubrio. Migliaia di chilometri, percorsi avanti e indietro da Firenze, per consegnare nuove identità alle famiglie ricercate con feroce determinazione dai fascisti della Rsi e dai nazisti. Furono più di ottocento gli ebrei che ebbero salva la vita grazie al valore silenzioso di un grande uomo del Novecento.

Bartali non parlò mai di questa sua esperienza venuta alla luce a seguito del riconoscimento conferitogli dal Museo dell’Olocausto: un cuore in fuga, che custodiva un grande segreto. Senza dire una parola. «Perché – aveva  concluso Beha, con una stoccata esplicita a Renzi - era un uomo che faceva e non diceva, contrariamente a chi dice e non fa».

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