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Giovedì, 25 Aprile 2024
Cultura

Altri tempi a proposito di una rappresentazione manzoniana

Ieri sera in San Ilario ho assistito ad una serata in onore di A. Manzoni. Chi era costui, se lo chiederanno fra qualche tempo i futuri studenti, visto che il Manzoni con i suoi Promessi Sposi, è stato espulso dai programmi scolastici. E così quello che Don Abbondio si chiedeva a proposito di Carneade, si verificherà a carico di quello fino a ieri considerato il nume del romanzo italiano. Il tempo infatti cambia le cose, e in questo clima di cultura omogeneizzata, di multiculturalismo aculturale, di standarizzazione delle usanze e dei comportamenti, di semplificazione di ogni riferimento storico e letterario, il riferimento al Manzoni acquista una valenza che sembra ormai superata. Trattasi di una visione, quella manzoniana, considerata oggi limitata ad una mentalità troppo provinciale, la nostra, per poter essere accettata dai nuovi seguaci di un mondo senza confini, diventato esso stesso troppo piccolo. Ho citato Don Abbondio perché questo era il titolo della pièce teatrale che appunto dal curato di quel paese dove è ambientato il romanzo fra il lago di Como , l’Adda, il Resegone e Lecco, si intitolava: Don Abbondio e la notte degli imbrogli. Dopo la presentazione di Massimo Polledri, assessore alla cultura del nostro Comune, che ha ringraziato chi da sempre ama Piacenza e si adopera in ogni modo per smentire il detto del mio avo Francesco, secondo il quale i piacentini sono i più smemorati d’Italia in quanto non tengono alle proprie radici (sto ovviamente parlando del Presidente Corrado Sforza Fogliani) eccoci agli inizi della rappresentazione. Con quel ramo del lago di Como, recitato dalla voce suggestiva e dalla recitazione misurata ed intensa dell’attrice Marta Ossoli. Una giovane che recitando trasferisce emozioni attraverso una scansione nella lettura, rispettosa delle pause e con accenti ora calmi, ora più intensi causa una voce capace di calibrare nel variare degli stati d’animo, i corrispondenti contenuti emozionali del romanzo. Non starò qui a trattare, nel dettaglio, i vari episodi che coinvolgono il curato, diventato prete non tanto per fede autentica, ma per raggiungere una posizione che gli desse un po’ di rispettabilità nella società del tempo, dove l’individuo singolo rischiava di soccombere se non fosse appartenuto a qualche ordine o confraternita o se non avesse fatto parte di una delle tante gilde, in grado queste ultime di tutelare l’individuo secondo bisogni ed interessi di un’intera categoria. Ecco allora emergere la figura del curato, che come dice l ’autore del romanzo pur essendo un animale senza artigli e senza zanne, non aveva alcuna inclinazione ad essere divorato. Quindi l’unica soluzione possibile, per lui, quella di barcamenarsi e mai prendere decisioni autonome che non fossero sostenute e giustificate dalla protezione di un potente. Nell’incontro con i bravi, lo stato d’animo del pusillanime curato raggiunge il suo apice, messo di fronte all’arroganza di un’imposizione e di un divieto a non dover celebrare il matrimonio fra i due promessi sposi. Dialogo fitto e stati d’animo opposti questi, ben espressi in modo autenticamente icastico dal secondo attore, un bravissimo Mino Manni, piacentino da me purtroppo mai visto nè conosciuto, esuberante di voce quando deve esprimere l’arroganza del potere e viceversa mellifluo, untuoso, timoroso allorché le parole vengono messe in bocca al curato. Incapace di darsi pace se non per incolpare quei due giovani che egoisticamente innamorandosi avevano messo in quella situazione, difficile e apparentemente senza soluzione, il loro povero curato. Si passa quindi all’incontro notturno in casa di Don Abbondio. Altri personaggi si presentano. La Perpetua, donna serva del curato, che ha dato poi il nome a tutte le future perpetue, propensa al pettegolezzo, vuole sapere quanto è accaduto, con la stessa determinazione del suo padrone a non tenere per sé il misfatto. Ecco poi farsi avanti Tonio e Gervaso due semi cretini individuati come testimoni di un matrimonio che non si doveva fare. E ancora Agnese, madre di Lucia, vedova di un marito di cui non vi è traccia nel romanzo , che con arti femminili lusinga la Perpetua, per portarla fuori dalla casa, onde lasciare campo libero al sotterfugio. Ed infine Renzo e Lucia, il primo semplice ma non sempliciotto, anzi lucido e determinato, e la seconda fin troppo cauta e timorata di Dio per convincere fino in fondo quei 25 lettori cui il Manzoni dice di affidare i destini del libro. Insomma, dopo l’episodio del Griso con i suoi bravi, si arriva alla conclusione con la peste che risolve capra e cavoli. Muore infatti Don Rodrigo, il mandante del divieto e così Don Abbondio riscopre valori e meriti della Provvidenza che lo ha liberato da un incubo. Ora può unire in matrimonio i due giovani, se mai questi non desidereranno scegliere un altro prete e un altro luogo.  Liberato da quel peso, addirittura auspica che la peste possa ripetersi ad ogni generazione. L’importante, sempre per lui, è guarire e per coloro che non riescono, pace alla loro anima.

Ho parlato della bravura degli attori, ma non dell’accompagnamento musicale del violino di Silvia Mangiarotti che con la sua musica e anche i suoi suoni diciamo così onomatopeici, ha contrappuntato ogni passo della recita, aggiungendo alla suggestione delle parole quella di un violino che sembrava volere interloquire con le sue corde, attraverso un linguaggio carico di nostalgiche emozioni e struggenti ricordi. Ed ora la domanda: che cosa rimane della recita? Risposta: il passato. Infatti, mi sono rivisto sui banchi di scuola quando allora i passi più importanti del romanzo, tipo “ l’addio ai monti sorgenti dall’acque” si studiavano a memoria. Ho rivisto la mia insegnate, esigentissima e col senno di poi bravissima, con la quale ebbi un diverbio quando incontrandomi di primo pomeriggio, mentre io mi recavo abitualmente da mia nonna a sentire le sue nostalgiche confidenze e a consultare i libri della sua biblioteca, mi chiese a bruciapelo con un accento di rimprovero dove andassi invece di stare in casa a studiare. Vado a spasso risposi freddamente con l’intenzione di reagire a quella invadenza non giustificata. Il risultato fu un’interrogazione ogni giorno per circa un mese ed i personaggi del calvario, il Manzoni e il Foscolo. Continuando, altri spezzoni in questo film della memoria mi si sono parsi alla mente, come se gli anni non fossero passati. Ricordo la punizione di tutta la classe perché uno di noi (non l’ho detto allora e non lo dico oggi) scrisse sulla porta d’entrata dell’aula: lasciate ogni speranza voi che entrate. Spezzoni, dicevo di quando a scuola si studiava e l’atmosfera non era molto diversa, per quanto siano passati alcuni decenni, ma non un secolo, da quella descritta dal De Amicis nel suo libro Cuore. Passato o meglio trapassato.

Oggi tutto è cambiato. Il bene e il male un tempo divisi con un taglio netto a differenza dell’aforisma del Manzoni a proposito della ragione ed il torto, oggi sfumano in una melassa incerta e spesso incomprensibile. La Provvidenza non si sa più che cosa sia e la conseguente morale è diventata un retaggio di quando si pensava e si studiava a memoria, mettendo a dura prova la capacità della mente. Ora non più. Troppo meccanico quel sapere, troppo superficiale quel nozionismo da pappagallismo, considerato insulso. Anche lo scrivere è mutato. Il pensiero non deve più essere rotondo, ricco, logico, punteggiato secondo il ritmo della respirazione. Meglio renderlo semplice, abbreviarlo con parole e frasi sincopate. E se anche un po’ incerte nella grammatica, va bene ugualmente, nessuno eccepisce e la matita rossa e blu è stata da tempo abolita. Più tecnologia e meno fantasia è oggi la chiave di svolta per interpretare il tempo attuale. Ammetto che la nostalgia sia una brutta consigliera per orientarsi e stabilire manzonianamente ragioni e torti. Tuttavia non nego che la recita di ieri sera risvegliando il passato, mi ha dato l’impressione che questo non fosse trapassato del tutto. Impressione appunto.      

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