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Storia piacentina

«Altro che monete d’oro e d’argento, fette di coppa e salame». Così Alberoni portò i salumi piacentini alle corti di Francia e Spagna

Anche il maestro Giuseppe Verdi era un cultore di questa ricchezza, fatta sia di piatti semplici e prodotti della terra sia di preparazioni artigianali ricercate

Questo libro vuole essere la testimonianza di ciò che siamo stati, ma soprattutto di ciò che desideriamo essere per il prossimo futuro». Così il presidente del Consorzio salumi Dop piacentini Antonio Grossetti chiude la sua prefazione al libro del giornalista Giuseppe Romagnoli pubblicato per l’importante anniversario per i 50 anni della costituzione del Consorzio e per i 25 dell’attribuzione del marchio Dop (unici in Europa) per ben tre salumi: coppa, pancetta, salame (in basso, la copertina del libro). Un riconoscimento ottenuto grazie all’impegno delle istituzioni locali, in primis la Camera di Commercio, ma soprattutto da parte dei soci produttori che sono riusciti nel tempo a migliorare sempre la qualità sia grazie all’innovazione tecnologica che conservando la tradizione produttiva. IlPiacenza.it, grazie al Consorzio salumi Dop piacentini, pubblica a puntate, alcune delle parti più significative del libro.

Il figlio dell’ortolano: il Cardinale Giulio Alberoni.
Qual è il rapporto tra un Cardinale con i salumi piacentini? È stato proprio grazie a Giulio Alberoni, uno dei protagonisti della storia europea della prima metà del 1700, che la loro fama giunse anche alle corti di Francia e Spagna. Era il primogenito di sei figli di un ortolano. In difficoltà economica, perché il padre venne prematuramente a mancare, divenne sacrestano della propria parrocchia, poi grazie alle amicizie instaurate con diversi ecclesiastici e funzionari, dopo studi in diritto canonico, storia ecclesiastica e lingua francese riuscì a divenire sacerdote. A quei tempi le possibilità di risalire nella scala sociale per un figlio del popolo erano davvero pochissime; la carriera ecclesiastica, una di quelle. Se si era intelligenti ed accorti, operando in silenzio ma con determinazione, come fece il giovane Giulio, si poteva davvero fare carriera. Dopo un soggiorno romano di due anni, tornò a Piacenza come segretario del Vescovo di Borgo S. Donnino (Fidenza) e strinse amicizia con Alessandro Aldobrandini, più tardi cardinale e nunzio in Spagna, e con i principali personaggi politici del ducato farnesiano. Insomma per sintetizzare al massimo, fu un abilissimo diplomatico il cui “capolavoro” fu il matrimonio di Elisabetta Farnese con il re Filippo V° presso la cui corte l’Alberoni fu ascoltato primo Ministro. Le sue capacità organizzative s’imposero infatti al re, che assecondò prontamente i programmi di governo suggeritigli. Ovvio che l’alto prelato ebbe anche un forte ascendente su Elisabetta che, giunta in ambiente straniero con limitatissimo personale italiano al seguito, ebbe al fianco un conterraneo duttile e perspicace. E qui entrano in gioco i nostri salumi che il figlio dell’ortolano conosceva assai bene. La neosovrana, come risulta da numerose testimonianze epistolari, chiese sovente al Cardinale Alberoni di far rifornire la dispensa reale dei salumi piacentini di cui era ghiotta. Forse le ricordavano anche la sua terra, perché pur regina alla corte spagnola, forse un po’ di nostalgia la provava! Scriveva il Cardinale in una delle sue numerose missive che citano i nostri salumi: «Gustando la Regina dei salumi crudi, ne ho comperato alcuni da questi genovesi, ma come sua Maestà si è spiegata di piacerli più quelli del nostro paese, ve ne porto l’avviso ed, in caso ne vogliate mandarne, potete spedirli prima di Pasqua». Lo possiamo immaginare far consegnare sontuose coppe venute da così lontano, quasi fossero spezie esotiche e spiegare ai fortunati cui le regalava il modo migliore per gustarle. «Altro che monete d’oro e d’argento o preziosi ninnoli. Fette di coppa e di salame!» Seppe dunque servirsi anche dei salumi e dei formaggi prodotti nella sua città per accattivarsi le simpatie di personaggi influenti, riuscendo così a realizzare importanti progetti di politica internazionale. Fu un ambasciatore prestigioso per i nostri salumi, con una vita davvero avventurosa! Il Cardinale Alberoni alla fine, per fortuna dei piacentini, ritornò nella sua terra. Infatti morto al principio del 1732 il cardinale Collicola, amministratore dell’ospedale di San Lazzaro presso Piacenza, il papa Clemente XII° pregò l’Alberoni di succedergli e lui tornato nella sua città, diede inizio alla demolizione del vecchio edificio, la cui ricostruzione fu interamente ideata e diretta da lui che pensò di farne un collegio ecclesiastico, dimostrandosi in questa occasione eccellente architetto. Per la cura e l’istruzione dei giovani nell’istituto, si rivolse alla Congregazione della Missione, fondata da S. Vincenzo de’ Paoli. Dopo ulteriori missioni diplomatiche, il Cardinale poté finalmente interessarsi di nuovo del suo collegio. Vi fu trasportata la biblioteca del cardinale Lanfredini, primo nucleo di una grandiosa raccolta di rari volumi. Al principio del 1743 gli imperiali posero sotto sequestro i beni del collegio, misura revocata quando Piacenza, nel settembre dello stesso anno, passò sotto il dominio sabaudo. Le operazioni militari del 1746 recarono all’edificio gravissimi danni: nel 1749 l’Alberoni provvide alla ricostruzione definitiva e nel novembre 1751 poté finalmente accogliere i primi diciotto giovani. Alla benefica istituzione lasciò con testamento tutti i suoi beni. Morì a Piacenza il 26 giugno 1752. E quanti alti prelati e Cardinali della Chiesa piacentini si sono formati in quel prestigioso collegio.

Tra Otto e Novecento dove non può mancare Verdi.
La nostra rapida carrellata nella storia dei salumi piacentini ci porta dal Settecento agli ultimi decenni dell’Ottocento. Con le trasformazioni agrarie, i maiali iniziarono a essere alimentati con gli scarti della produzione del latte, in particolar modo con il siero di risulta del formaggio grana lodigiano, piacentino, parmigiano e reggiano, che trovò un valido complemento nel grano “turco” o mais giunto dall’America. A causa della rivoluzione agricola della seconda metà del ‘700 che investe dapprima la pianura lombarda e poi quella emiliana e piemontese, le cose cambiarono infatti anche per il maiale. Da un allevamento brado e poi semibrado si è gradualmente passati ad un allevamento confinato: ovvero in maniera definitiva dai boschi alla stalla. La stabulazione con razze “inglesi” di colore roseo e con poche setole, è un fatto ormai accertato già nella prima metà del XIX secolo. Questo profondo cambiamento è conseguenza di un altro tipo di allevamento, quello bovino. Nelle cascine, fattorie o masserie, il circolo virtuoso tra foraggio - mucche da latte - trasformazione casearia e letame, permise il grande impulso agricolo alla base di ogni sviluppo moderno. Proprio gli scarti delle aziende casearie, il siero o latticello, diventarono il nutrimento base dell’onnivoro suino. Accanto ai caseifici sorsero moderne porcilaie che genialmente resero un prodotto di scarto in una fonte di ingrasso. Qualsiasi altro tipo di scarto enne trasformato in grasso dall’adattabile suino. Quelli della molitura di grano e granoturco, della pilatura del riso, della spremitura di semi oleosi della fermentazione della birra, sostentavano schiere di maiali. Un vero animale “ecologico” che ha sempre “riciclato” tutto. Da allora è indissolubile il legame tra agricoltura padana ed allevamento suino. Non cambiò solo l’allevamento padronale in stalle più o meno grandi con decine o centinaia di animali. Anche il contadino singolo che ha sempre tratto sostentamento per la propria famiglia dall’allevamento di un singolo porco che forniva la parte preponderante, se non unica, di proteine nobili e lipidi alla sua magra dieta, cambiò il sistema di allevamento. Anche il piccolo contadino proprietario di un minuscolo appezzamento o un bracciante dipendente da un grande proprietario terriero, allevarono il proprio porco di razza “inglese” e col sistema della stabulazione. Pure in questi casi qualsiasi tipo di scarto commestibile serviva ad ingrassare l’animale. Testimonianze Vincenzo Agnoletti, “cuoco, credenziere e liquorista” al servizio di Maria Luigia Duchessa di Parma, come egli stessi si definiva nel suo libro “Nuova cucina economica” stampato a Roma nel 1819, tra le numerose specialità preparate per la tavola della sovrana, includeva anche il salsicciotto piacentino. 

C’era poi lui, Giuseppe Verdi, “Il cigno di Busseto”, senza entrare volutamente nella querelle se fosse più piacentino o parmense. Di un aspetto però possiamo essere certi: Il Maestro, poiché era un grande ed appassionato proprietario terriero, conosceva ed apprezzava i salumi, sia quelli piacentini sia quelli parmensi. È innegabile che egli abbia vissuto a cavallo tra due mondi: quello musicale e quello rurale, apparentemente lontani, ma che sembrano, grazie all’opera del grande Maestro, trovare una complicità inaspettata e un’ispirazione reciproca. Verdi fu di fatto un abile imprenditore agricolo e utilizzò molti dei suoi guadagni per acquistare ampi fondi e terreni nel territorio nativo, tra le province di Piacenza (soprattutto) e Parma, dirigendo sovente in prima persona ed in modo innovativo i propri fondi. La ricchezza di Verdi ha dunque radici familiari nella civiltà contadina, nei suoi valori di positività e tradizione, comprese quelle culinarie della Bassa lambita dal Po. Sul suo passaporto alla voce professione si era definito agricoltore.

Terre ricche e generose che oggi sono rinomate per alcuni dei più apprezzati prodotti gastronomici d’Italia, celebri anch’essi, come il Maestro, anche fuori i confini nazionali. Giuseppe Verdi era un vero e proprio cultore di questa ricchezza, fatta sia di piatti semplici e prodotti della terra sia di preparazioni artigianali ricercate, come il Culatello di Zibello, il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano, il Prosciutto di Parma e i tre salumi piacentini: Coppa, Salame e Pancetta Piacentina. Con questa citazione vogliamo insomma mettere d’accordo tutti nel nome del buon salume e della cultura territoriale da cui proviene. A testimonianza dell’interesse che il Maestro aveva per la buona tavola, le tante lettere scritte da lui stesso e dalla sua compagna di vita, Giuseppina Strepponi, celebre soprano, che riportavano suggerimenti, ricette e aneddoti di cucina. Tra i prodotti più amati in casa Verdi, la Spalla cotta di San Secondo, un piccolo capolavoro di arte salumiera servita anche nella locanda della famiglia di origine del Maestro e gli anolini, abbinati ad un buon bicchiere di vino dei Colli piacentini. Come un vero e proprio ambasciatore dei valori della sua terra, Verdi inviava abitualmente da Villa Agata ai suoi amici prodotti di salumeria e formaggi. Nelle sue residenze organizzava pranzi conviviali dove i prodotti tipici del territorio e la cucina genuina non mancavano mai. Preferiva, infatti, le sue ricette semplici e tradizionali ai sontuosi piatti serviti nei famosi ristoranti che per motivi di lavoro spesso doveva frequentare. 
Prosegue con la stagionatura e tagli popolari ed osterie.

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