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Per il Pordenone anche la scalata al cielo raccontata da Fava con la voce narrante di Rabaglia

E così sulla grande ribalta della “Salita al Pordenone” è salito anche un racconto di fantasia: “Pordenone, scalata al cielo”

E così sulla grande ribalta della “Salita al Pordenone” è salito anche un racconto di fantasia: “Pordenone, scalata al cielo”. Potrebbe sembrare una voce fuori dal coro? Su un alto argomento d’arte e di storia com’è questo, la cupola del Friulano, su cui studiosi, critici ed esperti disquisiscono, ragionano, scrivono, si confrontano, discutono;  in questo campo vale aprire le porte ad una narrazione fantastica come quella scritta da Umberto Fava e recitata da Nando Rabaglia?

Certamente. Del resto, la cupola del Pordenone non è già tutto un grande fantasioso teatro, in cui una folla di attori, protagonisti, comprimari, comparse, figuranti recitano, nei loro costumi, nelle loro parti, un’antica sacra rappresentazione, una grande divina commedia sotto la regia di Dio Padre onnipotente? Ecco allora che anche Fava ha orchestrato la sua storia dentro “un abito lavorato dalla fantasia” (come piaceva a Leopardi), pagine a cui ha dato duttile voce  - ora seria ora scherzosa, ora solenne ora ironica, l’efficace interpretazione di Nando Rabaglia.

Nell’antico Refettorio dove un tempo s’ascoltavano, durante i silenziosi pasti dei frati di Santa Maria di Campagna, le storie esemplari dei santi, il folto uditorio - che già aveva ascoltato i razionali interventi di padre Secondo Ballati, dell’avv. Corrado Sforza Fogliani, della prof.ssa Raffaella Arisi, del dott. Giacomo Marchesi, della dott.ssa Laura Bonfanti e della prof.ssa Giuseppina Perotti - ha ascoltato con grande partecipazione una fantastica-realistica cronaca scritta da Umberto Fava, che descrive la movimentata vicenda della Basilica rubata dai diavoli (e poi recuperata dai santi) a Piacenza sul campo di Santa Maria di Campagna. Quattro i santi protagonisti: Sant’Agostino, San Raimondo e Santa Franca, più San Colombano, personaggi alleatisi per ritrovare e riportare al suo posto la Basilica rapita. Se il Tassoni ha cantato in secentesca ottava rima l’epopea burlesca della Secchia rapita a Bologna... il  Pordenone non ha altrettanto fantasticamente riunito nella sua cupola profeti e sibille, ninfe e angeli, personaggi biblici e figure mitologiche, Davide con Bacco, il Dio cristiano con gli olimpici Venere e Adone?

In azione ci sono anche Pordenone, Tramello e l’Angil dal Dom, ci sono santi,   diavoli e frati, in sottofondo la città dolente o festosa, il Po e le sue boschine, e in primo piano l’ansia del pittore di perdere l’ispirazione più che di perdere l’equilibrio e volar giù dagli alti ponti. E c’è la fantasia che fa volare la storia dove Fava vuole, con la stessa felice libertà con cui il Pordenone fa volare il suo estro pittorico nel cielo della cupola, dove si agitano, si ammucchiano, si mischiano come acqua e vino  il sacro e il profano.

Questo immaginifico “miracolo” s’è avverato grazie all’iniziativa della Banca di Piacenza ad uno dei primi eventi collaterali alla “Salita al Pordenone”. Se Pordenone  è stato l’inventore del Paradiso della cupola, la Banca di Piacenza è stata – col suo presidente Corrado Sforza Fogliani che ha guidato l’incontro - l’inventrice  della scalata al Paradiso. E le pagine di Fava mirano appunto a celebrare un avvenimento di cui si dovrà aver memoria. Ed ecco in appendice il finale del racconto letto al leggio da Rabaglia con sapienza recitativa:

         Sant’Agostino scende e dice semplicemente: “Ho guardato in faccia a Dio”.

         Sulla porta stavano per accomiatarsi. Com’erano venuti, così ora, conclusa la loro missione, se ne andavano. Ognuno per la sua strada.

         “Presto me ne andrò anch’io – disse poi il Pordenone mentre erano lì che si salutavano – Mi chiamano in altre parti”.

         “Hai delle buone scarpe senza buchi nelle suole?”, gli chiese il santo ciabattino.

         “Certamente, amico mio”.

         “Hai anche un buon bastone da viaggio?”, domandò Sant’Agostino.

         “Certo, di nocciolo”.

         “Hai dove andare? Conosci la strada?”, disse San Colombano.

         “Penso di sì”.

         “Non dimenticare i tuoi pennelli”, fece il Tramello.

         “Non li dimenticherò”.

         “E t’hanno pagato i frati?”, gli chiesi io che ero il suo rondone.

         “Sicuro, amici, altrimenti non me ne andrei così in fretta”.

         “Vai vai”, improvvisamente risuonò sotto le navate la voce di uno dei tanti suoi personaggi, e neppure le orecchie ritte di un lupo, neppure le orecchie aguzze d’un diavolo avrebbero saputo dire da dove fosse uscita quella voce, da che punto della folla sulla cupola, da quali labbra venissero quelle parole.

         “Vai pure, ma noi non ti seguiremo, resteremo qua, all’ombra di queste antiche, sacre e nobili mura a parlare di te, a cantare le tue lodi”.

         Gli avevano salvato la vita quando stava per precipitare – non c’è come l’arte che salva la vita agli artisti – Erano stati per lungo tempo i suoi sogni più belli e tormentosi, i pensieri fissi della sua mente, le sue visioni di creatore. Ma ora fu la prima e l’ultima volta che le sue creature, le mute figlie della sua fantasia di pittore gli parlavano, ed egli udiva finalmente la loro voce, vedeva il colore delle loro parole.

         A dirgli l’ultima parola, a fargli l’ultima domanda fu Santa Franca, quasi spiaciuta del suo commiato. Pordenone col bastone di nocciolo e le scarpe senza buchi se ne andava, s’era appena allontanato da noi sulla viottola nel campo di Campagna, che lei lo rincorse col suo agile passo di ragazza d’alta valle.

         “Ehi, Friulano – gli fece – Tu che sei reduce dalla scalata al cielo, perché non ci dici una cosa: da quelle vette non hai mai portato giù niente, nessun ricordo?”.

         Rispose: “Sì, questo”.

         Aprì la mano e le mostrò il suo souvenir: una penna d’angelo. 

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