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Economia

Latte, Confagri: «Il prezzo di riferimento fissato in Lombardia non dà certezze»

Lucchini: «Il prezzo lo fa il mercato, il resto sono ingessature, occorre prudenza»

Siccità, rincari e diminuzione delle produzioni di foraggi mettono a dura prova gli allevatori, che ormai da troppo tempo subiscono gli effetti della congiuntura economica, aggravata dalle condizioni meteorologiche proibitive. «Il costo del latte alla stalla è fortemente aumentato - afferma Alfredo Lucchini, presidente della Sezione di Prodotto lattiero-casearia di Confagricoltura Piacenza-. Vista la complessità del momento, persino l’accordo sottoscritto con un prezzo di riferimento per i prossimi sei mesi non è in grado di dare certezze». Il 20 luglio scorso è stato definito da Italatte il prezzo del latte alla stalla fino alla fine del 2022 e subito recepito e dai principali i soggetti della trasformazione. L’accordo è stato raggiunto su una media di 57 centesimi al litro con, nello specifico, 55 cent/l nei mesi di luglio e agosto, 57 cent/l nei mesi di settembre e ottobre, 58 cent/l nel mese di novembre e 60 cent/l nel mese di dicembre.

«Il significativo aumento del prezzo – spiega Lucchini – è un segnale del mercato: manca prodotto, il peggiore incubo per la trasformazione. Del resto sono diversi gli allevatori europei che stanno dismettendo la produzione, provati da anni decenni senza alcun profitto significativo e vessati da norme che osteggiano apertamente gli allevamenti. Le proteste degli allevatori olandesi non sono arrivate alla ribalta delle cronache, ma in migliaia hanno invaso le strade. La protesta è l’arma di chi è disperato. Il salto in avanti del prezzo è stato notevole, ma la grossa incognita restano i costi di produzione, che sono ancora in aumento, con i raccolti e i foraggi che sono scarsi a causa della stagione siccitosa, il gasolio alle stelle e l’acqua che manca».

«L’andamento del mercato in questo momento è talmente imprevedibile che è difficile stimare quale possa essere un prezzo valido - prosegue Lucchini - Dopo trent’anni in cui non si poteva toccare il prezzo al consumo, in poche settimane sembrano saltati tutti gli schemi. La fase d’instabilità politica e l’assenza di politiche che agiscano sull’organizzazione della filiera non fanno che incrementare le incertezze. Oggi conosciamo il trend del prezzo per i prossimi sei mesi, ma storicamente gli accordi così lunghi vengono rinegoziati a fronte di stravolgimenti di mercato, cosa che in questo contesto non si possono escludere».

Un anno fa eravamo al di sotto della soglia dei 40 cent/litro. All’incremento dei prezzi correnti contribuisce la scarsità del latte di importazione dai paesi del centro-nord Europa, con il latte spot che è arrivato a toccare i 68 cent/litro. «In molti pensano seriamente di chiudere - spiega Lucchini – specialmente di fronte ad un passaggio generazionale, la scelta è la cessione, la conversione o la chiusura dell’allevamento. Manca il profitto e i ritmi non sono più accettabili, specie se commisurati alle vessazioni burocratiche e normative (classyfarm, condizionalità, benessere animale, etc.), che generano costi non riconosciuti nel prezzo. Le aziende medie famigliari non vedono futuro, gli allevatori non sono liberi nelle scelte gestionali, viene negata così una storia di generazioni di vero presidio del territorio con decisioni di commissioni che non rischiano nulla anche quando generano un’ecatombe sociale».

In barba quindi allo storytelling dei piccoli allevamenti, delle economie circolare del farm to fork oggi vediamo grandi aziende che diventano sempre più grandi assorbendo le piccole dismesse e ciò nonostante operano in estrema difficoltà finanziaria. Mentre inseguiamo le chimere di prodotto 100% italiano, agricolture digitali, satelliti, droni che dovrebbero risolverci tutti i problemi, la filiera in generale risulta in crisi se non importiamo materie prime perché vengono trascurate le reali esigenze dei fattori produttivi. «Manca una strategia politica che agevoli gli investimenti per potenziare trasformazione e commercializzazione del nostro latte; mancano politiche espansionistiche dei nostri asset nazionali a vantaggio della filiera compresa la produzione – rileva Lucchini -. Una filiera che ha enormi potenzialità, che non sono certo sfuggite alle grandi realtà straniere. È cronaca di questi giorni che Lactalis si è fagocitata Ambrosi: un altro tassello del nostro valore aggiunto nazionale che andrà altrove, operazione che sarebbe stata molto più complessa qualora le quote di produzione della DOP fossero state in capo agli allevatori. Speriamo dunque – conclude Lucchini – che il prezzo del latte tenga, almeno per coprire i costi enormi e del tutto incontrollabili, ma la mancanza di coesione e di progettualità del settore sicuramente non ci aiuta, alla determinazione e all’oculatezza occorre aggiungere prudenza. Auspichiamo comunque che i prezzi seguano questi trend e che la capacità commerciale di collocare con profitto il latte ci renda sempre più liberi da politiche di assistenzialismo, viste su scala nazionale sempre più come indispensabili, ma che in realtà hanno solo fatto lievitare i costi e oberato le nostre aziende di burocrazia e debiti e che sia dunque il profitto protagonista a spingere gli agricoltori a investire e sviluppare con ottimismo le proprie aziende».

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