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Martedì, 23 Aprile 2024
Economia

«Latte, il prezzo minimo non è la strategia e il riferimento a 41 centesimi ci danneggia»

Lucchini: «Servono strategie commerciali per far riconoscere il valore del nostro latte alla trasformazione e al mercato»

La situazione finanziaria delle stalle da latte è al collasso. Complice la forte dipendenza dalle importazioni dei fattori produttivi, i costi di fertilizzanti, energia e mezzi tecnici sono più che raddoppiati, i costi alimentari per le bovine risultano del 30% superiori rispetto alle ultime campagne. Si registrano aumenti importanti persino per i costi di affitto dei terreni a causa della sempre maggiore scarsità delle superfici per l’agricoltura. «Tra costi, adempimenti e vincoli, il mix questa volta è senza precedenti» – tuona Alfredo Lucchini, presidente della sezione di prodotto lattiero Casearia di Confagricoltura Piacenza. «Come avevamo già previsto e scritto nei mesi scorsi il protocollo di intesa del tavolo politico del latte che aveva stabilito l’obiettivo dei 41 centesimi/litro come prezzo del latte alla stalla ad oggi risulta inapplicato e inapplicabile, con il rischio in alcuni casi di ancorare al ribasso una quotazione che per la situazione di mercato potrebbe essere superiore». Lucchini si riferisce alla quotazione del Grana Padano abbondantemente sopra i 7 euro che vede una potenziale remunerazione del latte alla stalla che tende ai 50 centesimi (fonte CLAL).  Si tratta un compenso oggi riconosciuto solo a una minima parte del latte prodotto nel comprensorio. «Basti pensare – precisa Lucchini - che oggi persino il 30% del latte con contratti di conferimento a caseifici Grana Padano prende altre strade, come peraltro recentemente affermato dai massimi addetti ai lavori del Consorzio di tutela. Nel complesso dunque anche il latte della filiera non viene valorizzato a pieno per le sue potenzialità». E qui il dirigente di Confagricoltura Piacenza torna a puntare il dito sulla politica di crescita troppo prudenziale portata a vanti negli anni dal Consorzio. «Rispetto all'ultimo piano di regolazione si stima servano 1.6 milioni di forme di Grana Padano in più, soltanto per “sistemare” il latte delle 4mila stalle attualmente contrattualizzato con caseifici Grana DOP. A fronte di un’esigenza territoriale di milioni di forme, l’ultimo piano di regolazione ne ha previste poche decine di migliaia in più, a titolo tra l’altro decisamente oneroso, operazione che di fatto ha escluso i piccoli caseifici, particolarmente diffusi nella nostra provincia, contribuendo così ad ampliare nei fatti le quote di quelli più grandi in grado di acquistare anche la parte dei piccoli. Non menzioniamo poi le altre 8mila stalle del comprensorio del prestigioso formaggio che, in gran parte certificate, non hanno nemmeno la possibilità di conferire una parte del latte per alla filiera DOP. In questo contesto di "eccesso" di latte, anche il principio dell’equa correlazione, previsto dal Piano produttivo, non viene rispettato da parte dei principali caseifici che esercitano talvolta politiche di dumping (con pagamenti anche inferiori al prezzo minimo) nei confronti di allevamenti che risultano oltretutto comunque legati ai caseifici stessi persino mediante piani di filiera». Per quanto riguarda le destinazioni diverse dalle filiere Dop, il latte italiano risulta oggi particolarmente interessante essendo venuta meno l’attrattiva del latte estero, tradizionalmente più conveniente, ma oggi importato a quotazioni superiori a quelle del prodotto nazionale. «Se per le filiere delle Dop chiediamo ormai da anni strategie commerciali che siano davvero in grado di valorizzare le potenzialità del prodotto e di redistribuire il valore lungo la filiera andando a ristorare anche i produttori di latte, che è poi la finalità alla base dell’istituzione della Dop, per il latte destinato ad altri usi chiediamo che venga valorizzata la qualità del latte nazionale nel momento in cui anche il prezzo di mercato non giustifica più l’importazione».  Oggi stimiamo 7 milioni di tonnellate di "equivalente latte" importato utilizzato nelle diverse filiere di trasformazione italiane. Si tratta del 40% del fabbisogno nazionale. «Anche su questo fronte è necessario – spiega Lucchini - spingere sui nostri prodotti, rendendo più competitive le produzioni italiane e distribuendo il valore lungo la filiera, ancor più dato che anche i prodotti importati sono destinati ad aumentare di prezzo visti i prezzi del latte con cui sono prodotti». Insomma il prezzo di riferimento a 41 centesimi/litro, ratificato dal mercato e non dall’accordo, oggi ha ben poco significato non rappresentando né il valore del prodotto né la soglia minima di copertura dei costi individuata attorno ai 45 centesimi/litro. «Con queste quotazioni sottocosto si potrebbe aprire anche il capitolo delle pratiche sleali – prosegue Lucchini - Da imprenditori penso non occorra protestare per il prezzo di riferimento concordato che è stato comunque frutto di un impegno collettivo che ha visto in prima linea anche le istituzioni agricole, ma ci tengo a ribadire e i fatti mi danno ragione, che esporsi per un prezzo minimo, non significa manifestare con la giusta cognizione di causa sul mercato. Il prezzo minimo non è imprenditorialità, ma assistenzialismo. In un Paese in cui si parla di salario minimo, di reddito di cittadinanza ecc ecc, che ha portato i nostri sistemi produttivi allo scatafascio, noi non possiamo, da imprenditori quali siamo, oscurare la nostra identità dietro scelte senza visione. L’aiuto che chiediamo – conclude Lucchini – non è per avere un prezzo minimo, ma per poterci dotare degli gli strumenti commerciali adatti per arrivare a far ottenere al nostro latte il prezzo che corrisponda al suo valore, per fare in modo che la filiera ce lo riconosca e che il libero mercato lo premi».

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