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Economia Cortemaggiore

Paratubercolosi bovina: un’azione comune per tutelare qualità, benessere e reddito

Incontro al teatro Duse di Cortemaggiore organizzato dal Colat con Norma Arrigoni responsabile del Centro di Referenza nazionale per la Paratubercolosi dall’Istituto Zooprofilattico di Piacenza

Tubercolosi bovina, una malattia sempre più diffusa che riguarda, con percentuali casistiche assai differenti, circa il 50 % degli allevamento italiani ed europei; colpisce soprattutto l’intestino, ma se penetra nel sangue, può infiltrarsi anche nel latte, un problema che è divenuto ancor più rilevante dal momento in cui alcuni Paesi terzi (India, Cina, Russia) hanno cominciato a chiedere all’Italia delle garanzie commerciali relative alla paratubercolosi sui prodotti a base di latte. 

Una pretesa di cui occorre assolutamente tener conto considerato che l’esportazione dei nostri prodotti lattiero caseari verso questi Paesi (Cina in particolare) è in netta espansione e che la nostra industria lattiero- casearia è fortemente interessata ad ampliare questi mercati.

“E’ perciò necessario- ha affermato il presidente del Colat Giancarlo Pedretti che ha organizzato l’incontro con gli allevatori presso il teatro Duse di Cortemaggiore (presente il sindaco Gabriele Girometta), predisporre un piano con i tecnici Apa (presente il presidente Fabio Minardi) per affrontare questa patologia e per ottenere forme sempre perfette”.

Relatrice della serata la dott. Norma Arrigoni responsabile del Centro di Referenza nazionale per la Paratubercolosi dall’Istituto Zooprofilattico di Piacenza che ha illustrato la situazione epidemiologica italiana e le “Linee guida per l’adozione di piani di controllo e l’assegnazione della qualifica sanitaria nei confronti della paratubercolosi bovina”, recentemente approvate dalla Conferenza Stato-Regioni ed in via di adozione da parte delle varie Regioni italiane. 

Le linee guida nascono da un’esigenza commerciale di certificazione delle produzioni, a supporto delle quali è stato introdotto un sistema di sorveglianza passiva con segnalazione obbligatoria dei casi clinici al Servizio Veterinario ASL. 

“Anche se al momento la qualifica di “allevamento senza casi clinici” è sufficiente

-ha spiegato- per l’esportazione dei prodotti lattiero-caseari, non ci si può certo limitare a ciò; in un allevamento infetto che non attua idonei piani di intervento, la malattia tende infatti a diffondersi lentamente ed i casi clinici, anche se non sono ancora comparsi, hanno una probabilità crescente di manifestarsi negli anni futuri, parallelamente alla diffusione dell’infezione. 

E’ quindi necessario intervenire prima possibile, attraverso l’adozione di opportuni test diagnostici, volti ad individuare gli animali infetti, e di misure di bio- sicurezza, a protezione degli animali giovani che sono particolarmente recettivi all’infezione.  Oltre alla sorveglianza sui casi clinici, le linee guida hanno colto l’occasione per istituire un sistema di classificazione degli allevamenti bovini in base al rischio della presenza di paratubercolosi in azienda, basato sugli esiti di esami sierologici eseguiti su animali di età superiore a 36 mesi, secondo protocolli di prelievo codificati. 

A tutti gli allevamenti bovini verrà associato un livello di rischio, anche se la progressione rispetto al livello iniziale è volontaria. Maggiore è il numero di anni in cui i test hanno dimostrato esito negativo, maggiori saranno le garanzie di indennità dell’allevamento. E’ ovvio che l’allevatore che vende animali da vita è più motivato a certificarsi, perché potrebbe avvalersi del proprio status per qualificare commercialmente le proprie manze, ma questo potrebbe valere anche per chi invia animali ai centri genetici, o deve certificare il proprio latte nell’ambito della filiera.

Dobbiamo anche ricordare- ha precisato- che in Europa molti paesi, in particolare Olanda e Danimarca, hanno messo in atto già da diversi anni dei piani d’intervento volti a ridurre la prevalenza di infezione o a “certificare” le proprie produzioni. Quello di cui bisogna rendersi conto è che questa è un’occasione da non perdere per cominciare a lavorare, in linea con gli altri paesi nord-europei, per migliorare lo stato sanitario e la redditività dei nostri allevamenti, qualificando commercialmente le nostre produzioni”. 

E’ vero che le prove di contaminazione sperimentale dei formaggi a lunga stagionatura (Grana Padano e Parmigiano Reggiano), hanno dimostrato come queste tecnologie di produzione garantiscano la sterilizzazione del prodotto nell’arco di alcune settimane, confermando la sicurezza nei confronti di questo potenziale patogeno. 

Sintomi e strategie.

Colpisce tutti i ruminanti e si trasmette dalla madre al vitello attraverso le feci, con una incubazione assai lunga. Dunque bisogna prestare la massima attenzione ai figli degli animali infetti che vanno monitoriati. E’ essenziale pulire accuratamente la sala parto, rimuovendo subito il vitello, azione che può evitare anche altre patologie.

Va somministrato colostro igienicamente indenne, pastorizzare il latte per il vitello. Massima attenzione all’igiene dell’allevamento e della sala parto.

Quali i sintomi sospetti? Diarrea cronica, cachessia (grave forma di deperimento organico, caratterizzata da progressivo deterioramento di tutte le funzioni metaboliche, estrema magrezza, riduzione delle masse muscolari e assottigliamento della cute) e deve essere confermato dall’esame delle feci. Chi ha un caso clinico può avere controllo sierologico gratuito dall’Asl ma “è bene- ha sostenuto la dott. Arrigoni- che gli allevatori puntino su un programma per conoscere bene lo stato sanitario dell’allevamento, così come in questi mesi hanno cominciato a fare alcuni caseifici presso le stalle dei loro soci.

Del resto il costo dell’esame è assai contenuto, un Euro, mentre la perdita economica per ogni capo infetto è stata calcolata in 207 Euro per vacca l’anno. Ma non basta eseguire i test. Bisogna eliminare i capi positivi ed adottare piani per proteggere i vitelli dal pericolo di infezione. In altri stati sono state attuate misure molto drastiche.

In Olanda chi non elimina animali infetti non può produrre latte. In Canada addirittura vengono distrutti. In Italia si punta a coinvolgere allevatori e veterinari con piani volontari di controllo, ma vige l’obbligo di segnalare ogni caso all’Asl. Non è dimostrato secondo Efsa una possibile trasmissione all’uomo attraverso le carni.

Insomma attraverso questi piani di controllo si determinano- ha concluso la dott. Arrigoni- benefici economici indiretti, ovvero la riduzione delle patologie ed un maggior benessere per l’animale e si qualificano le proprie produzioni rendendole sempre meglio atte all’export.

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