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Lavoro, Rifondazione: «L’autunno di preoccupazioni che ci possiamo aspettare»

L'intervento di Rifondazione Comunista sulle sfide dei prossimi mesi in tema di lavoro e occupazione

«È di questi giorni il pesante intervento del presidente di Confindustria in polemica con la decisione del Ministero del Lavoro di intervenire in qualche modo sul problema delle delocalizzazioni. Un intervento a gamba tesa che si collega a quelle pressioni già precedentemente messe in atto da Confindustria per anticipare l’abolizione del blocco dei licenziamenti che era entrato in vigore nel pieno dell’emergenza pandemica.

Ciò che Confindustria continua a mettere in campo è il suo esplicito rifiuto, il suo fastidio nei confronti di qualsiasi forma di solidarietà sociale. Niente di nuovo in realtà, semplicemente la conferma di quegli obiettivi che il sistema delle imprese persegue da anni e che hanno come elemento portante l'assoluta indisponibilità ad operare in un sistema di regole capaci di richiamare i comportamenti ad una idea di solidarietà (soprattutto in un periodo di forte crisi sociale) e la preminenza del mercato (inteso come interesse privato) sopra ogni altra cosa.

Certo è che il sistema produttivo è in sofferenza da anni (almeno dalla fine degli anni 70). Al vecchio ordine Fordista, ormai in crisi nel garantire adeguati livelli di remunerazione del capitale investito, si sta sostituendo il modello della fabbrica flessibile, basato sull'obiettivo della massima riduzione dei costi, della eliminazione di ogni vincolo o forma di controllo nei confronti delle scelte dell'impresa.  L'idea di fabbrica flessibile richiede infatti assoluta libertà di scomporre il ciclo di lavorazione, distribuendolo in tante piccole e piccolissime aziende (esternalizzazioni, cessione di lavoro conto terzi), affidamento di sempre maggiori quote di lavoro a cooperative esterne (appalti, subappalti), libertà di delocalizzare nei paesi che garantiscano un costo del lavoro ed una libertà di manovra più favorevoli, libertà di licenziare, smantellamento delle tutele contrattuali.

A farne le spese, ovviamente è quell'impianto di norme contrattuali e legislative (conquistate con un duro ciclo di lotte dal dopoguerra fino agli anni 60) che avevano permesso di mediare tra una sempre presente propensione al profitto con la promozione di pratiche di redistribuzione della ricchezza sotto forma di salari, occupazione e welfare. Un sistema questo che Confindustria aveva cominciato a mettere in discussione, già dagli anni 80, con l'attacco alla scala mobile ed ai modelli contrattuali. Quello che vediamo in questi giorni, l’aumento delle procedure di riduzione occupazionale, la chiusura di interi siti produttivi a fronte di delocalizzazioni in altri paesi (vedi Wirpool, GKN, Timkem, per non parlare delle tante piccole e medie imprese che non guadagnano un titolo sui giornali) rappresentano la punta emergente di quanto potrà ancora succede nei prossimi mesi ed anni.

Nelle sue pressioni per far decadere il blocco dei licenziamenti e nelle proteste verso il Ministero del Lavoro per le sue intenzioni (per altro timide ed inefficaci, al limite del semplice richiamo morale) di porre dei limiti alla propensione a delocalizzare, Confindustria utilizza l’argomento che essendo la manifattura l’ossatura dello Stato a questa non va impedito di procedere nella sua riorganizzazione/ristrutturazione del ciclo produttivo, ma anzi va aiutata lasciandole mano libera su tutto…Una argomentazione tutta da dimostrare. Come si può pensare di dare a questa libertà di scelta (licenziamenti, esternalizzazioni, delocalizzazioni, sempre maggiore precarietà del lavoro) un valore salvifico nei confronti dello stato? Forse spostare le produzioni in Romania, poter licenziare in nome di generici obiettivi di riduzione dei costi di produzione, chiedere al mondo di lavoro di accettare una sempre maggiore condizione di precarietà economica e lavorativa, rappresentano l’interesse dello Stato?

Quello che la libertà di scelta da parte delle imprese (peraltro sostenuta purtroppo anche dalla politiche economiche di questi anni, dall’abolizione dell’art. 18, al Jobs act, ma anche da una inefficace risposta sindacale che con la “concertazione” si era illusa di poter contare qualcosa) è sotto gli occhi di tutti. Occupazione sempre più precaria, salari sempre più bassi, arretramento delle tutele, potere contrattuale ormai al lumicino. Praticamente un generale e sempre maggiore impoverimento. La indisponibilità ad ogni idea di patto sociale, la rivendicazione di preminenza dell’interesse di impresa su qualsiasi altro interesse, l'indisponibilità di Confindustria a qualsiasi forma di solidarietà sociale, il suo vedere come penalizzazione inaccettabile quanto a livello normativo si cerchi di fare, sembrano prefigurare (e c’è da preoccuparsi) quell’impianto normativo di epoca fascista (1927) sulle corporazioni, sul “Patto per il lavoro” che si apriva con la frase… “Il lavoro non è un diritto ma un dovere”. Come dire che non esiste uno stato, ma solo ed unicamente il mercato ed i suoi interessi alle cui leggi ed interessi tutto e tutti devono subordinarsi. Ora l’autunno si prospetta già carico di non poche preoccupazioni su cui sarebbe bene ed urgente aprire una riflessione».

Rifondazione Comunista – Circolo di Piacenza Rosa Luxemburg

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