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Cori, dialetto, Estathé: l’eterna vita biancorossa di Davide Reboli

Un ricordo di Davide Reboli, storico leader e figura di riferimento della curva nord

Verso giugno arrivava allo stadio con un asciugamano legato alla cintura e una bottiglietta di Estathé. Faceva caldo, lassù in curva. Davide Reboli girava le spalle alla balaustra e quando l’arbitro fischiava l’inizio faceva quel che fanno tutti i capi-ultras: non guardava la partita. Una volta, in un video cult che gira ancora su YouTube, il centrocampista Andrea Parola, durante un duro faccia a faccia dopo una sconfitta, gliel’aveva coraggiosamente fatto notare: «Ma l’hai vista la partita?». «No. E allora?».
Quando hai 20 anni e inizi a scrivere di calcio sui giornali devi prendere contatti anche con la tifoseria. Nel caso del Piacenza la tifoseria erano due fratelli che si presentavano sul piazzale del Garilli col giubbotto di pelle nero, gli anfibi ai piedi, i guanti senza dita e gli occhiali da sole anche se il sole non c’era. Marco e Davide Reboli. «Vieni qui, giornalaio».

All’inizio avevi qualche timore. Tutte quelle storie che si raccontavano sugli ultras violenti e facinorosi potevano condizionare anche te. Poi cominciavi a frequentare i bar dove si sbronzavano prima e dopo la partita, iniziavi a conoscere il mondo ultras, un ecosistema alcolico fatto di birra scura e mignon di Caffè Borghetti. Gente con princìpi incomprensibili per chi non frequentava una curva. Gente che era disposta a tutto pur di proteggere un fratello. Gente che come Davide, grossa, piazzata, con braccia enormi, poteva scoppiare a piangere per la scomparsa del suo piccolo cane. Erano prigionieri di una fede, vivevano in un’altra dimensione, ti rispettavano e pretendevano rispetto. La legge non scritta era una sola: «Tu sei un giornalista, io sono un ultras». Il confine etico era stato delimitato. Non c’era bisogno di aggiungere altro. Anche perché te lo ricordavano con un megafono ogni volta che la squadra scendeva in campo: «I veri teppisti sono i giornalisti!».

Marco e Davide parlavano spesso dei viaggi in pullman e delle trasferte dei vecchi tempi. «Ti ricordi quella volta in cui abbiamo scardinato la porta del cesso del Bentegodi?». E poi le tappe all’Autogrill, il rapporto schietto e diretto con Fabrizio Garilli, le grigliate notturne all’American bar. Loro, come tutto il mondo ultras, temevano che i provvedimenti varati in seguito dal governo, tra divieti, diffide, Daspo e tessere personalizzate, potessero portare all’estinzione delle curve e del tifo organizzato. E tu, giovane giornalista, ascoltavi, facevi poche domande e prendevi appunti, cercando di ricordare il significato dei tatuaggi che portavano sul corpo per dare una mano di colore al pezzo. Poi, grazie ai ragazzi della curva, potevi scoprire quelle massime esistenziali che un giorno avrebbero fatto di te un uomo: esiste solo la birra da 66. Calda, se possibile.

Eri giovane e avevi voglia di stupire. Così ci facevi dentro. Edulcoravi, scrivevi, riscrivevi, facevi titoli come «Avanti popolo, bandiera biancorossa» sperando che Davide ti chiamasse per riconoscere il tuo acerbo ma indiscusso talento giornalistico. E infatti Davide ti chiamava. «Giornalaio, vieni qui. Sei tu che hai fatto quel titolo lì?». «Sì». «Fa schifo al cazzo. Tu lo sai come la pensiamo sulla politica, vero?». Già. Il calcio non è la politica. Il calcio è roba seria. Specialmente per un ultras.
Passano gli anni. Il Piace vive, muore, in qualche modo risorge. E Davide è sempre lì. Con l’asciugamano legato alla cintura e la bottiglietta di Estathé. Una volta con la barba ben rasata, un’altra con le basette lunghe fino al mento. Ad accendere fumogeni. A benedire i tifosi. «Corpo de Uddine…». 

Il pallone rotola. Il tempo scorre tra dialetto e Red Bull. Piangi la madre, la persona che ti ha fatto amare e riamare il Piace. Piangi Marco, che a ogni turno di campionato rivive nel nome della Nord e nelle pezze che sventolano in tribuna. Poi arriva il giorno in cui sono gli altri a piangere te. All’improvviso, in una giornata di aprile, con la squadra ai playoff di serie C, si ritrovano spontaneamente sotto casa tua. C’è silenzio, ora. Non c’è più chi lancia il coro.

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