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Natale 2023

«Non abituiamoci al rancore e all'ostilità: diventiamo comunità accogliente»

Le omelie del vescovo Adriano Cevolotto nella notte e nel giorno di Natale

Il Natale 2023 segna gli 800 anni della nascita del presepe. Lo ha sottolineato il vescovo Adriano Cevolotto alla messa del 25 dicembre in Cattedrale e nella Concattedrale di Bobbio. «San Francesco di Assisi - ha spiegato il Vescovo - a Greccio inventò quello che noi oggi chiamiamo presepe vivente con un bambino piccolo, l’asino e il bue accanto a lui. Oggi purtroppo in molti casi abbiamo trasformato quest’intuizione spirituale diventata popolare in tutta la terra in un simbolo identitario e divisivo, oppure l’abbiamo ridotto a puro spettacolo, una sorta di allestimento da visitare, come le vetrine dei negozi; in realtà, il presepe “è una via che favorisce l’approdo al mistero”: la grandezza di Dio si manifesta nella piccolezza, la divinità in un’umanità privata di tutto. 
Il presepe fa risuonare per noi ancora le parole dell’angelo: “oggi nella città di Davide è nato per voi un Salvatore”. Gesù - ha detto il Vescovo - “è nato proprio per te, è nato per me perché sono io il primo ad aver bisogno di salvezza”.
Il presepe di Greccio aveva, ed ha ancora oggi, il suo momento culminante nella celebrazione dell’eucaristia in cui il Bambino, come nella mangiatoia, si fa cibo e nutrimento per tutti».

«Dio - ha sottolineato il Vescovo alla messa di Natale - entra nella storia per la porta di Betlemme, una borgata periferica, nella debolezza, fragilità e vulnerabilità di un neonato. Anche Giuseppe sperimenta la precarietà di un padre “che non riesce ad offrire un’adeguata sistemazione alla sposa e al bambino che sta per nascere. Giuseppe incarna tutti quei padri che ancora oggi sono impotenti nel poter garantire condizioni di vita ai loro figli e che si sentono inadeguati”. A Betlemme non si è trovato posto ad una coppia di estranei che era per strada, in cui lei stava per partorire un figlio; era il Figlio dell’Altissimo, ma chi lo poteva sapere?  Dio, duemila anni fa come oggi, non dà preavviso, si manifesta in modo inaspettato. Noi oggi - si è chiesto mons. Cevolotto - che cosa avremmo fatto? Avremmo aperto la porta ai tanti che bussano e arrivano sempre nei momenti più inopportuni? Spesso, infatti, si dice: “Non si può mica accogliere tutti».  

L’analisi del Vescovo si è allargata anche ai contesti di guerra: «Ci stiamo abituando e rassegnando che si continui a non trovare posto negli ospedali bombardati di Gaza o di qualsiasi altra Gaza della terra; che ci siano madri e padri che non hanno neppure una mangiatoia dove deporre i loro figli. Betlemme è il luogo più diffuso nel mondo. Le relazioni sono sempre più intossicate da rancori, risentimenti, ostilità, l’altro è messo alla porta o addirittura eliminato. Però stupisce che il Gesù del Natale non s’arrenda alle nostre porte chiuse ma rinnovi il suo nascere tra noi per ripeterci che non dipende da noi, ma da Lui la possibilità di salvarci».

«La prima comunità cristiana - ha proseguito il Vescovo - prende forma proprio a Betlemme come comunità generata nell’accoglienza. Gesù è nato per ciascuno di noi senza differenze. Rivela un amore singolare, come se ciascuno di noi fosse unico: Lui ci ama senza condizioni. 
Nella comunità del carcere mons. Cevolotto ha messo a fuoco la figura dei pastori. «Ci sono descritti come coloro che custodiscono ciò che è stato loro affidato e che è loro più caro: il gregge. A ciascuno - aggiunge - è affidato qualcosa di prezioso, di cui ci si deve sentire responsabili. Per qualcuno è la moglie, i figli… I pastori ricordano a tutti che questa è la cosa che ci deve stare a cuore: stare svegli anche quando è notte, buio per custodire chi ci è affidato».

«Sono i pastori i primi a mettersi in cammino verso Betlemme: da soli - ha precisato il Vescovo - si fa fatica a partire a motivo della pigrizia, della sfiducia, della stanchezza. Bisogna invece sostenersi nelle motivazioni; al contrario, un ambiente che mortifica l’entusiasmo, ci deprime, ci intristisce e fa riemergere il peggio di noi. A volte a farci guerra sono i nostri pensieri (“è inutile, non ce la farò…”), a volte è il riemergere del nostro passato o il ritenerci a posto, senza avvertire la necessità di dover cambiare.
L’alternativa è accontentarsi; perseverare, infatti, non è facile, spesso subentra la stanchezza e si molla. Per questo sono importanti gli altri, per scambiarci reciprocamente la forza nel perseverare, oltre che per partire. C’è proprio bisogno di una comunità attorno a noi».

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