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Domenica, 28 Aprile 2024
Un po' di storia

Piacenza nel Medioevo era una città di mulini

Cosa si faceva per portare a casa la cosiddetta “pagnotta” nei secoli scorsi

L’era del mulino ad acqua inizia nel Medioevo, un’invenzione millenaria, diffusa e affidata ai “molinarii” (che ha ci ha reso un diffuso cognome, un nomen omen cioè un nome un fatto).

Per far funzionare la pala che muoveva l’ingranaggio “molitorio” ci voleva un bel salto d’acque, da un florido canale irriguo. Un salto d’almeno due o tre metri che dava la forza necessaria al suo funzionamento. A Piacenza e nel territorio (districtus) sono decine i mulini: quelli sui “rivui macinatorii” e quelli sulla sponda di Po, “in ripa Padi”.

E se alcuni erano di proprietà feudale, parliamo dei paesi e solitamente affittati, anche in città non si mancò di costituire un “paratico” (società) dei molinari, con le loro regole fatte di doveri e diritti.

Ed anche in questo “campo” non mancarono dazi, gabelle e balzelli vari. Chi aveva da “molire” frumento o granaglie varie aveva il suo bel balzello da pagare oltre - ovvio - al costo del lavoro del mugnaio. Insomma neanche per la farina utile e indispensabile per la classica pagnotta si sfuggiva ad un dazio.

Memoria di mulini cittadini e dei relativi rivi in Piacenza sono le moderne vie “molineria San Giovanni”, “molineria Sant’Andrea” e “molineria San Nicolò” (e sono solo un esempio di tutti gli impianti esistenti).

L’invenzione della “ruota da mulino” (quella sulla quale cade l’acqua) ha dato un bello slancio a questo “lavoro”: la molitura medievale ha avuto una resa quasi triplicata in confronto con quella più antica e spartana della macina, “fatta girare in tondo” da cavalli e asini.

Dal medievale “Registrum Magnum” del Comune di Piacenza abbiamo potuto leggere decine d’atti “notarili” legali che regolano la concessione di rivi, molini e terre adiacenti, posti sia in città che nel territorio. Così come sull’uso dei canali “molitori” o la derivazione d’essi dal Rio Comune. Ma bastava “pagare” e, come per magia, ottenere il permesso richiesto era veramente un attimo. Al massimo c’era qualche clausola particolare cui attenersi, ma il guadagno che poi si aveva superava qualche astrusa richiesta comunale.

La basilica cittadina di “Sancti Antonini” rilasciava il permesso nel 1180 al Comune di poter ricavare dal “Rivum Communem” un canale per acque e in cambio però dal “Veteri Rivo” (Rivo Vecchio) di proprietà comunale, i preti traevano un canale a “utilitate” della “ecclesia Sancti Antonini” ed anzi esigevano il diritto di “habere molendina de eodem canale in sua terra in perpetuo”.

Nel 1184 i consoli piacentini danno in fitto “de medietate” (a metà) cioè con diritti d’uso ridotti, non continuativi durante tutto l’anno “unius molendini” tra “strate Sancte Allexandrie” e quella che va verso Santa Maria Maddalena (parliamo della zona della via Beverora).

Nel contado, ad esempio a Calendasco nel tardo 1300 era attivissimo il mulino accanto al castello, dato in affitto dai Confalonieri ad un “mollinario” locale. Sempre nel borgo dietro all’odierno palazzo del Comune era il “molino Bruciato” (alimentato dal rivo Confalonerio), in funzione ad acqua fino a metà del secolo scorso e poi elettrificato (oggi purtroppo demolito).

Nel 1187 leggiamo che il prete della Pieve di San Prospero a Zena di Carpaneto aveva un “molinum” che veniva alimentato addirittura da un canale preso dalla “Trevia”, con tutta una serie di derivazioni, di lavori non indifferenti a ben pensarci. Ugualmente si traevano canali per più mulini dal torrente Nure, dall’Arda e dallo stesso Tidone, diverso il discorso per il Grande Fiume: qui i mulini erano aderenti alla sponda, in posizione d’acqua battente e quindi sempre funzionanti, anche nel periodo di “magra estiva”.

Nel “Liber Statutorum” del 1323 (una miniera di dati, sebbene un documento scritto in latino) abbiamo desunto dal “liber sextus” che ad esempio “quilibet mulinarius” della città di “Placentie” ma anche del suburbio, “in ipsa civitate vel burgis”, debba obbligatoriamente avere “unum rastellum lignaminis” messo su una riva e l’altra del canale molitorio. Per non dare “periculum personam” ma si citano anche altri pericoli, ci voleva una staccionata lungo il rivo, con la pena di una multa salata di 20 soldi piacentini per “quolibet mulinario”.

La regola della macinatura era ferrea: entro quattro giorni “granum vel farinam” andava macinata e resa al proprietario, ed inoltre i “mollinarii” dovevano andarsi a prelevare i sacchi di grano a domicilio.

Ancora nel tardo 1400 e per diversi secoli, i mulini “in ripa Padi” (sulla sponda del Po) ebbero una regolamentazione ferrea: dovevano avere una certa distanza uno dall’altro, essere “spostabili” in caso di necessità e durante le piene del fiume andavano tenuti saldamente ancorati.

Ce ne sarebbe da raccontare, storicamente e con fior fiore di documentazione coeva, circa i mulini, i molinari, i loro aiutanti, le tassazioni, circa Piacenza e l’intero territorio in quei secoli lontani.

E c’era anche una non piccola concorrenza, tra un molinaro e l’altro, e come recita il proverbio, antico e saggio “ognuno tira l’acqua al suo mulino”. E poco importava se era di rivo, di torrente o di fiume. L’importante era riuscire a portare a casa la pagnotta giorno dopo giorno.

Umberto Battini

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