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Martedì, 30 Aprile 2024
Cronaca

«Con un rasoio mi tagliarono la pancia, poi le violenze. Se mi fossi ribellata avrebbero ucciso la mia famiglia»

Seconda udienza del maxi processo che vede sul banco degli imputati cinque nigeriani per svariati reati. Sei le vittime di tratta, tre parti civili tra cui il Comune di Piacenza. Le indagini erano state coordinate dalla DDA di Bologna. In aula hanno parlato due giovani

Quando è arrivata in Italia aveva 25 anni. Le avevano promesso un lavoro come baby sitter e invece è finita sui marciapiedi della Caorsana prigioniera di un ricatto, soggiogata da riti tribali e vittima di soprusi e violenze. Non riveliamo il nome perché questa donna è sotto protezione ed è una delle testimoni chiave della maxi inchiesta che ha sgominato una potente organizzazione criminale nigeriana che come tante altre in Italia sfruttano giovani ragazze facendole prostituire. Con lei ha parlato anche un'altra vittima di tratta. Sul banco degli imputati ci sono cinque nigeriani (sia uomini sia donne) accusati a vario titolo e in concorso di riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, acquisto e alienazioni di schiavi, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Si tratta di Idlaghe Meshasch (difeso dall’avvocato Alessandro Righi), Ouantia Katsouli Feith (avvocati Federico Fischer e Marios G. Chatzivassiliou), Ojo Victoria (avvocato Stefano Germini) e Omorodion Godspower (al momento irreperibile e difeso dall’avvocato Fabiola De Ronzo) e Victory Moses difesa dall’avvocato Mario Marcuz del foro di Bologna. Due vittime si sono costituite parte civile con l’avvocato Sara Stragliati. Anche il Comune di Piacenza si è costituito parte civile con l’avvocato Elena Vezzulli, il 26 febbraio sostituita dalla collega Anna Maria Soavi.

processo tratta nigeriane-2LE INDAGINI E IL PROCESSO - Le indagini della polizia erano state coordinate dal pm della Direzione distrettuale antimafia presso il tribunale di Bologna (DDA), Roberto Ceroni. Sono sei le parti offese (tutte giovani donne) di cui due si sono costituite parte civile con l’avvocato Sara Stragliati. Le indagini (sfociate poi in due operazioni Little Free Bear I e II) erano iniziate nel mese dell'agosto 2017 sotto l'egida della Procura della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Bologna, Direzione Distrettuale Antimafia e coordinate dal sostituto procuratore Roberto Ceroni.

A Piacenza Expo il 26 febbraio si è svolta la seconda udienza davanti alla Corte d’Assise presieduta dal giudice Gianandrea Bussi, Laura Pietrasanta e sei giudici popolari. E’ durata più di sette ore. Hanno parlato due giovani nigeriane vittime della rete di sfruttamento che recluta in Nigeria le donne e le fa arrivare in Italia e in Europa in generale e poi le fa prostituire per anni, riducendole in schiavitù. Protette da un paravento perché non potessero incrociare lo sguardo di quelli che la procura ritiene i loro aguzzini le due donne hanno raccontato nei dettagli e grazie all'aiuto di un interprete le rispettive storie. Le chiameremo Anna e Laura. Laura ora ha 23 anni e ha raccontato di essere arrivata a Piacenza dalla Nigeria passando dalla Spagna e dalla Francia (in entrambi i Paesi era costretta alla strada). La giovane ha dichiarato di aver vissuto in un appartamento di via Boselli di proprietà di Ojo Victoria e assieme ad altre donne costrette al marciapiede. Come le altre connazionali doveva ripagare il debito del viaggio: «Pagavamo a Victoria l'affitto in nero, eravamo tutte senza documenti. Victoria voleva sempre i soldi, voleva che lavorassimo sempre di più. Un giorno arrivò la polizia e mi nascosi sotto il letto perché ero clandestina, mi hanno portato a Roma in un centro di identificazione ma mi hanno lasciato andare perché ero incinta, sono tornata in via Boselli ma non mi volevano più allora ho girovagato fino a quando ho perso il bambino e ho ricominciato a prostituirmi per vivere. Ho conosciuto Anna e abbiamo abitato insieme anche in via Manfredi. Victoria ci deve che dovevamo uscire di casa una alla volta forse per non dare nell'occhio e non attirare l'attenzione della polizia. Il mio debito era di 45mila euro».

Pm Roberto Ceroni DDA di Bologna nigeriane-2LA STORIA DI ANNA - «In famiglia eravamo otto: sei fratelli in tutto e i miei genitori. Mio papà si ammalò e morì. Restammo soli. Al villaggio arrivò mio zio che disse che era colpa di mia madre se mio padre morì perché era una strega. Poi arrivò un uomo che sposò mia madre, ci trasferimmo altrove. Ci promise che saremmo ritornati a scuola e invece le sue promesse furono vane, anzi la situazione precipitò. Miseria e molestie: il mio patrigno tentò di violentarmi, riuscii a scappare ma non dissi a mia mamma cosa era successo. Sono riuscita ad arrivare a Benin. Ho vissuto di stenti per strada poi una donna mi tese una mano, mi disse che potevo andare a casa sua: si chiamava Esohe (che si rivelò successivamente una madame che reclutava giovani donne che faceva poi arrivare in Europa dalla sorella Quantia Katsouli Feith ndr). In casa sua facevo le pulizie e mi disse che in Austria c’era la sorella che aveva un figlio e che aveva bisogno una baby sitter: sarebbe andato tutto bene» e invece era l’inizio di un incubo. «Prima di partire  - racconta Anna - arrivò in quella casa un uomo, uno zio. Prese un rasoio e mi fece dei tagli sulla pancia e sulla schiena. Sanguinavo. Poi mi fecero bere una bevanda con dei semi e della birra, una sorta di pozione. Quell’uomo pronunciava alcune frasi rituali. Non capivo cosa stesse succedendo, solo dopo mi dissero che ero stata sottoposta al rito JuJu. Se avessi deciso di non andare in Europa avrebbero ammazzato tutta la mia famiglia e che avrei dovuto pagare 40mila euro spesi per il mio viaggio. Non ho più avuto scelta. Da Benin siamo andati nella città di Kano poi da lì siamo arrivati ad Agadez». Anna era finita nella mani di una delle tante reti composte da varie persone ciascuna con il proprio ruolo. Da quel momento non fu più libera.

Ci sono i reclutatori, la persona che fa il JuJu, le madame e una serie di figure intermedie che accompagnano le vittimepolizia penitenziaria piacenza expo-2 dalla Nigeria all’Italia: “i boga” e i “connection men”. Da Agadez comincia un viaggio di circa 4mila chilometri attraverso il deserto, poi la Libia. Violenze, abusi, soprusi, botte, umiliazioni all’ordine del giorno.  In Libia Anna viene messa in una connection house. Lì ci sono tante ragazze con davanti lo stesso destino. Prima di arrivare nei pressi della costa libica Anna dice: «Ho sentito degli spari, ho cercato di scappare, non guardavo cosa stava accadendo alle altre: io dovevo salvarmi. Poi abbiamo cambiato tante case prima di partire e di salire quindi sul gommone che ci avrebbe portato in Italia. Non ci lasciavano mai sole, ogni gruppo aveva un “boga” che aveva il compito di controllarci. Spesso non ci davano da mangiare». La voce si rompe, è stanca, ripercorrere quei mesi è difficile. Dopo altri mesi finalmente parte. Il viaggio in mare dura una notte. E’ gennaio. Arriva in Sicilia, viene presa e portata a Cuneo in un centro di identificazione. Le vengono prese le impronte digitali. Anna sa che deve mettersi in contatto con Esohe: «La chiamo con il cellulare di una ragazza che era con me, il numero era scritto su un foglietto. Mi dice che sarei stata contattata da sua sorella Feith e mi raccomanda di non farmi prendere le impronte digitali ma era troppo tardi. Sono scappata dal centro (“camp”), fuori mi aspettava il fidanzato di Feith, sono salita in auto e siamo andati in Austria. Una volta lì Feith mi ha detto che dovevo farmi identificare in un centro austriaco, sono rimasta lì alcuni mesi e ho fatto richiesta d’asilo. Ho scoperto che dovevo prostituirmi per ripagare il debito, se mi fossi rifiutata mi avrebbero ammazzato e avrebbero ucciso la mia famiglia». In Austria però si erano nel frattempo accorti che il primo Paese dove era stata era l’Italia e lì doveva tornare. Ed è qui che entrerebbe in campo Ojo Victoria che la recupera a Milano e la porta in via Boselli. In quella casa ci sono altre ragazze.

tratta nigeriane-2«Mi dicono che devo prostituirmi altrimenti il fratello di Feith e i suoi amici, detti Cultisti e membri delle Cult Gang (organizzazioni criminali operanti in Nigeria) sarebbero andati a picchiare i miei fratelli e mia mamma. Mi hanno fatto vedere dove dovevo vendermi sulla Caorsana. Pagavo a Victoria 150 euro di affitto al mese, e lo stesso facevano le altre ragazze. Eravamo tutte clandestine. Lei controllava se andavamo a lavorare, quanti soldi portavamo a casa e se erano pochi erano botte. Se ero stanca mi picchiava e minacciava. In casa c’erano anche suo figlio e sua moglie. Quest’uomo ha cercato più volte di molestarmi sessualmente. Non volevo più fare questo lavoro, c’è stata una discussione, mi ha colpito con calci e pugni, poi è arrivata la polizia e sono scappata. Per pagare il debito di 40mila euro andavo vicino alla stazione in piazzale Marconi e inviavo in Nigeria i soldi  al fratello di Feith tramite il circuito MoneyGram, non mi chiedevano mai i documenti. Poi chiamavo mia mamma le davo i codici per prelevare il denaro e lei li comunicava a quell’uomo.  Mia mamma sapeva cosa facevo e mi aveva detto di continuare per evitare che ci fossero problemi, a quel punto sono andata ad abitare in una casa di via Manfredi. Anche lì c’erano altre ragazze come me, tutte prostitute, tutte clandestine. Pagavamo l’affitto ad una coppia di nigeriani, poi arrivò la polizia che ci salvò. Fino ad allora ero riuscita a restituire solo circa 5mila euro dei 40mila euro totali. In un'occasione mi ribellai ed effettivamente la mia famiglia ricevette la visita di quelle persone cattive». Ora Anna è al sicuro ed è finalmente libera. 

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