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Cronaca

«Un avvocato alla mensa della Caritas»

La ripresa economica e la mensa della Caritas, un racconto breve di Livio Podrecca

«Per via della ripresa, e della crisi, da cui il nostro Capo del Governo dice che siamo oramai fuori, in un servizio dedicato alla povertà, a Striscia la Notizia hanno fatto vedere un avvocato, vittima di una separazione, in coda ad una mensa dei poveri.

La cosa mi ha colpito. Non capisco nulla di flussi finanziari, di pilné di congiuntura economica. Penso però che la nostra società ha perso i riferimenti valoriali essenziali, e non fa più figli, dimostrando così, a parte un cinico egoismo, di non avere, di fatto, nessuna fiducia nel futuro. E, anzi, di averne terrore. Quasi un neo-catarismo, qualcuno ha detto. Non capisco come possa una società che invecchia e muore ricominciare a crescere. Forse sarebbe più realistico dire che per certi aspetti possiamo avere ripreso, momentaneamente, un po’ di ossigeno, ma che per crescere davvero occorrerebbe recuperare la spinta ed il patrimonio ideale, di valori e di fiducia, che ha consentito di realizzare il nostro sistema di welfare. A partire dalla famiglia e dalla apertura alla vita, in un radicamento profondo nel cristianesimo. Ma i segnali in questo ambito, anche a livello politico, sono tutt’altro che tranquillizzanti. Nel dilagare di una cultura laicista, non solo la famiglia non è promossa né favorita, ma è anzi per molti aspetti contrastata ed apertamente penalizzata.

Forse sbaglio. Ma penso che, a questa stregua, alla lunga per l’occidente le cose non potranno che peggiorare,con buona pace dei proclami. Il fatto dell’avvocato alla mensa dei poveri mi ha fatto però mettere insieme un po’ di cose sparse nella mente e nei ricordi di esperienze vissute. Ne è scaturito questo breve racconto, di fantasia, che trae lo spunto da fatti realmente accaduti e, forse, in qualche modo collegati con quello che ho detto sopra. Lo propongo senza nessuna pretesa né finalità. Sarei lieto, ammesso che qualcuno lo legga, che ne scaturisse un dubbio. Magari un pensiero. Meglio ancora una riflessione.

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Nestore si avvicinò al vetro dello sportello ed esibì il tesserino. L’addetta lo scrutò da dietro le lenti spesse degli occhiali con la montatura rotonda di metallo chiaro, marca Occhidoro di Rosignate, e staccò di netto il talloncino con il numero di ingresso. Nestore di accomodò il bavero del paletò rialzandolo quanto possibile verso le mandibole contratte. Aveva un portamento eretto e distinto, in netto contrasto con la marmaglia che lo aveva preceduto. Prese un vassoio caldo e qua e là bagnato di fresco dalle gocce residue del lavaggio in lavastoviglie. Vi accomodò la tovaglietta di carta. Lo depose sulla mensola del bancone delle vivande e fece scorrere. Tortiglioni al pomodoro, parmigiano? Sì grazie. Vitello tonnato, una porzione di verdura fresca. Pane, posate, bicchiere, tovagliolo di carta. Al tavolo, al centro della sala alla luce fredda del neon, di fronte a lui un giovane nero della Nuova Guinea, e un vecchio barbone dalla pelle scura e raggrinzita come il cuoio. Entrambi emanavano un odore forte e penetrante, di sudore sottopelle il primo, acutissimo di urina il secondo. Ognuno consumava il pasto in silenzio e con gli occhi bassi, tra risucchi di brodo ed i gorgogli e gli scrocchi in sordina della masticazione.

Nestore ripensava alla sua giornata in tribunale, alle prossime scadenze di fine anno alle quali, ormai era certo, non poteva fare fronte. Probabilmente lo Stato e la Cassa di Previdenza di sarebbero attivati per il recupero coattivo dei rispettivi crediti. Imposte e contributi previdenziali. Nestore confidava nel lasso di tempo necessario perché le procedure di recupero fossero avviate e portate a compimento. Ne sarebbe conseguito, infine, anche un procedimento disciplinare dell’Ordine Avvocati di Maltagliata, al quale era iscritto dal 1997. Il secondo, che si sarebbe affiancato a quello in corso per violazione delle norme del codice deontologico che impongono all’avvocato, quale era Nestore Piedigrotta, un tenore di vita dignitoso. Nestore, invece, non pagava da semestri l’affitto dello studio, non riusciva a corrispondere alla moglie separata che una parte dell’assegno di mantenimento dei quattro figli avuti in dodici anni di matrimonio, le entrate erano sacrificate per oltre la metà nel pagamento dei mutui contratti, su richiesta della moglie, in costanza di convivenza, per necessità famigliari: la ristrutturazione dell’appartamento che Samantha, la moglie, aveva preteso pur essendo i Piedigrotta in affitto in un quadrilocale del quartiere Balduino; il rinnovo dell’arredo della cucina; il computer per il figlio Denis; la crociera alla Maldive sempre voluta da Samantha nel 2003. Infine, Nestore, che si era trasferito in un monolocale per cui pagava 400 euro di affitto al mese, di cui 150 in nero, per sopravvivere aveva dovuto chiedere di essere ammesso alla mensa della Caritas di Maltagliata, borgo settentrionale ed operoso dell’industrializzato nord Italia. Un tenore di vita inaccettabile per un avvocato. Di qui il procedimento disciplinare.

Nestore e Samantha si erano sposati in chiesa nel 1993. Avevano fatto insieme catechismo e frequentato i gruppi giovanili in parrocchia. Quindi avevano deciso di sposarsi. I genitori di Samantha erano separati. La madre, accanita lettrice di fotoromanzi, aveva problemi di alcol. Il padre l’aveva lasciata per una giovane magrebina. Samantha aveva un fratello che a diciassette anni era emigrato in Germania. Lo vedeva e lo sentiva saltuariamente, quando rientrava in Italia per visitare la madre nelle feste comandate. Del padre non si avevano più notizie da tempo. Ad un certo punto Samantha fu aggredita da un certo tedio della vita e dalla smania di svaghi e divertimenti, ai quali si dedicava diversi giorni alla settimana, moltiplicando le amicizie maschili. Da tempo tradiva il marito, e la circostanza era nota non solo nella cerchia famigliare e degli amici. Alla fine era uscita allo scoperto ed aveva chiesto la separazione. Durante la causa, Samantha aveva addotto la propria disaffezione verso il marito, dal quale, oltre che se ne andasse di casa, pretendeva per i quattro figli un assegno mensile di novecento euro. Non so quale quadro dell’ultimo Modello Unico di Nestore riportava un reddito lordo di novantamila euro. Dedotte le spese, la previdenza, le imposte, il reddito netto medio mensile era di poco meno di tremila euro, dei quali 1800 assorbiti dai pagamenti periodici dei mutui contratti. Quattrocento euro se ne andavano per l’affitto. Nestore riusciva a dare alla moglie 350 euro per i figli. Il resto serviva per la macchina, necessaria per gli spostamenti di lavoro, e le spese per la sopravvivenza di base. Per mangiare aveva dovuto chiedere di essere ammesso alla mensa dei poveri. Il lavoro assorbiva oltre il novanta per cento delle energie e del tempo di Nestore, che ormai da tempo sopravviveva grazie all’aiuto saltuario della anziana madre e di qualche pietoso amico. Nella causa di separazione, il giudice si era dimostrato verso di lui incomprensibilmente ed apertamente ostile, ed aveva più volte redarguito Nestore che una volta messi al mondo i figli devono essere mantenuti, e che c’è un minimo al disotto del quale l’assegno di mantenimento non può andare. Che uno, poi, concretamente non ce la faccia non conta nulla. Per il diritto non rileva. Doveva pensarci prima. Il giudice aveva anche fatto pressioni affinché il marito desse il proprio consenso alla separazione. Un atto di civiltà, diceva, l’unico modo con il quale affrontare, oggi, correttamente la separazione. Insomma Nestore, che si era sposato perché ci aveva creduto, che era rimasto fedele alla moglie, che aveva cercato di accontentare anche nelle pretese più assurde, che aveva generato quattro figli, si era trovato buttato fuori di casa e costretto a trovare una nuova sistemazione, obbligato a pagare i vecchi debiti ed a corrispondere alla moglie un assegno per il mantenimento dei figli, mentre le spese si erano moltiplicate. Oltre ai vecchi debiti, che lui doveva continuare a pagare, ed il mantenimento dei figli, c’erano le spese della casa, la luce, il gas, i rifiuti urbani. Inutilmente il suo avvocato (un vecchio amico che aveva accettato di assisterlo gratuitamente) aveva cercato di spiegare che ci sono delle economie famigliari di scala, per cui i costi dei figli successivi al primo vanno proporzionalmente diminuendo, che i costi fissi sono proporzionalmente inferiori quando i beneficiari sono plurimi e, inversamente, superiori per chi vive solo, che, quando le cose vanno finanziariamente male, una famiglia va avanti con l’aiuto degli amici, con la carità, la solidarietà del parroco, e via dicendo, e che era disumano gravare il padre di un obbligo che si sapeva a priori che non avrebbe potuto assolvere, esponendolo ad azioni esecutive e denuncie penali. Il giudice visibilmente compreso dell’altezza e della nobiltà della sua missione (la tutela dell’interesse dei bambini) era stato inflessibile e Nestore, che aveva fatto del suo meglio per mandare avanti la famiglia, che era stato fedele alla moglie, che era stato da questa tradito ed ora buttato fuori di casa, in giudizio si trovava a dover subire anche le pesanti reprimende ed i rimproveri del giudice, come un imputato e quasi che la colpa di tutto fosse la sua che, invece, la subiva.

Nestore ripensava a tutto questo sbucciando un mandarino senza noccioli recuperato dagli addetti della Caritas dai bancali dei prodotti in scadenza dell’Esselunga. Guardava Ibrahim, il nero della Nuova Guinea sbarcato in Sicilia da un barcone di clandestini, e pensava che forse la sua situazione non era la peggiore di tutte quelle possibili. Non aveva più lacrime per piangere né la forza per indignarsi. Si trascinava, rassegnato, nella vita. Da lui tutti pretendevano o si aspettavano qualcosa: lo Stato, la Cassa Forense, la moglie, il giudice, i creditori, i figli. Gli pareva che a nessuno interessasse di lui, ma solo, alla fine, di quello che lui produceva. Dei suoi soldi. Lui poteva anche andare al diavolo. O, che è poi lo stesso, all’inferno.

Uscì nell’aria umida della sera. Sbadigli di luce dai lampioni della pubblica illuminazione e dalle vetrine dei bar e dei negozi chiusi si liquefacevano, sfumandosi nella nebbia fitta. Il freddo penetrava nelle ossa. Nestore pensò al vecchio rugoso. Per la notte avrebbe preparato un letto di cartoni vicino alla Stazione Centrale. Vi si sarebbe disteso, coperto da un panno sudicio e puzzolente. Probabilmente facendosela addosso si sarebbe inzuppato della propria urina, fino al momento in cui avrebbe dischiuso le palpebre rigide al gelo del mattino, e i funzionari e gli impiegati dell’Agenzia delle Entrate e del Catasto, i funzionari di cancelleria ed i giudici avrebbero scostato con un gesto lento della mano le calde coltri dei comodi letti, sollevato le tapparelle o aperto le imposte mentre le caldaie degli impianti autonomi avrebbero portato i locali alla confortevole temperatura preimpostata sul termostato e l’odore del caffè si sarebbe sparso nell’aria. Mentre il vecchio mendicava un cornetto caldo al bar dell’angolo, per questi la luce del mattino avrebbe dato la stura ad un nuovo giorno sindacalizzato, pieno di diritti e di pretese, all’insegna dell’amor proprio e protestando il proprio impegno non sufficientemente riconosciuto. Un giorno pieno di sussiegose certezze, maledettamente grigio e borghese. 

Dentro di sé Nestore si sentiva ormai un clochard. Era solo questione di tempo. Aspettava solo che anche il suo stile pubblico di vita si adeguasse completamente al nuovo status. Scostò con il piede calzato nella scarpa ancora lucida un cartone sparso sul selciato luccicante. Quindi si avviò a passo spedito verso casa, scomparendo lentamente nella nebbia».

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