rotate-mobile
Venerdì, 26 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

I mestieri umili dei nostri progenitori: i sulèi, i lustrascarpe e le bucataie

Proseguiamo la nostra carrellata sui vecchi mestieri umili (ma sempre svolti con dignitoso impegno), con i sulèi, i lustrascarpe e le bucataie

Proseguiamo la nostra carrellata sui vecchi mestieri umili (ma sempre svolti con dignitoso impegno), con i sulèi, i lustrascarpe e le bucataie.

Lavori, come è stato già ribadito, svolti negli squallidi ghetti borghigiani, nelle contrade, nei vicoli, nei “cantoni”, ma anche alla ribalta delle piazze maggiori, nelle vie del baricentro storico, luoghi dove i singoli operatori stanziavano le loro botteghe “senza pareti e senza porte”, in pianta stabile o, più sovente, itineranti.

Quello dei sulèi è stato un mestiere venuto ormai meno, come in altre località, in quanto sostituito da nuovi sistemi di lastricatura dell’acciottolato. Forse qualche specialista c’è ancora in azione, soprattutto per sostituire parti di vie più antiche, ma ormai l’asfalto, per causa di forza maggiore, è predominante.

Erano specialisti che inserivano nel terreno i sassi (o cubetti) di analoga forma o misura per rendere più solide le carreggiabili, usando mazzapicchi cerchiati di ferro e muniti di un regolo. In maglia e pantaloni sdruciti, i piedi infilati in malconce ciabatte, alzavano ed abbassavano il loro strumento di battitura dei ciottoli “assecondandone il ritmo- scriveva Carmen Artocchini- mediante una specie di cantilena appena sussurrata”.

I lustrascarpe costituivano una categoria di attrezzati operatori del costume mondano molto in auge al tempo della galante società giolittiana, quella delle ghette e delle uose. La loro attività si protrasse anche negli anni fra le due guerre, quando campeggiavano sui muri le “affiches” del lucido Brill e gli “stuchèi” prediligevano le calzature di scintillante vernice.

I lustrascarpe, ad onta del loro ruolo formalmente servile, erano figure di agghindata serietà professionale, ligi all’etichetta del decoro e dell’eleganza senza complessi di inferiorità classista. Con i loro alti banchetti simili a trabiccoli-comodini, si piazzavano nei pressi di Palazzo Gotico ed in altri punti nevralgici del centro cittadino. Non se ne stavano mai con le mani in mano, perché la società del tempo considerava le scarpe sporche o polverose, un segno di deplorevole incuria e sciattezza individuale, perciò le loro prestazioni erano ritenute indispensabili.

Lo storico locale Giulio Dosi che visse l’esperienza “snobistica” e se ne servì, ricordò questa figura tipica in auge sugli scorci del ‘900. Si trattava in genere di “un certo ometto di mezza età, dall’abito lindo, quantunque piuttosto dimesso cui un piccolo berretto con visiera d’incerata, sembrava volergli dare una certa aria pretenziosa . Eseguiva il proprio lavoro nel breve spazio tra alcuni pioli di granito e la cancellata che cinge la statua equestre di Alessandro Farnese, in Piazza Cavalli”.

Per chi doveva ricorrere al lustrascarpe, era consuetudine appoggiare prima l’uno e poi l’altro piede sull’apposita pedana in legno dalla falda inclinata e ricoperta con spesso panno verde.

“Impugnando di volta in volta spazzole, setolini e vari strofinacci di lana e cotone, egli si industriava sulle calzature del cliente, ripulendole dal sudiciume e dalle imbrattature, per poi farle luccicare con creme nere o marrone, secondo il colore della pelle. Le vostre scarpe tornavano così come nuove, quasi fossero appena uscite dal negozio del rivenditore. Modestissima la spesa, qualche soldo, non di più.

Nei momenti in cui la clientela scarseggiava, il nostro servitore pedestre, dotato però di dignitosa galanteria mondana, ingannava il tempo a scambiare quattro chiacchiere con gli occasionali sfaccendati che solitamente sostavano nei pressi di Palazzo Gotico o nelle adiacenze dei Cavalli farnesiani”.

Comunque i lustrascarpe, pur contandosi sulle dita di una mano, avevano una operosa tradizione alle spalle, risalente all’epoca della “belle epoque” umbertino-floreale, quando l’etichetta dell’abbigliamento era segno di decoro, di forbitezza mondana, quasi uno “status symbol”. Personaggi a loro modo compunti e servizievoli, i lustrascarpe, ingiustamente, divennero, per metafora, come untuosi lacchè di ottimati del potere sociale, economico e politico.

Fra le bucataie in pianta stabile si ricordava, che negli anni ’20 e ’30 c’era la famosa “Guglielma” di Torrione Borghetto; gestiva una lavanderia sul Fodesta e lavorava per le caserme, specie il 21esimo Artiglieria, unitamente ad altre lavandaie che collaboravano con lei nel bucato “fatto con la cenere” e con l’acqua bollente in grossi pentoloni di rame. E’ qui che si lavavano lenzuola, federe, mutande, coperte, calze ed ogni altro indumento militare. In via Borghetto c’era pure la più moderna lavanderia dei Lamberti.

Numerosissime altre bucataie e lavandaie si trovavano in tutti i rioni, le strade ed i cantoni cittadini. Alcune guide cittadine ne citano a decine. Poi l’avvento delle lavatrici ne sancirono la scomparsa.

Ettore De Giovanni in un suo articolo ricordava “certe lunghe giornate di sole e di “marinate” da scuola, con un compagno del Liceo-Ginnasio di via S. Antonio in Piazza d’Armi; qualche plotone di soldati si esercitava; al vicino torrente, al Durè, (nei pressi della Beverora) le lavandaie. Ma ovunque erano distesi panni al sole, lungo tutta la città, sugli spalti delle mura, sui bastione di Borghetto e del Fodesta. Erano come tante bandiere bianche per chiedere la resa ad un nemico invisibile”.

I mestieri umili dei nostri progenitori: i sulèi, i lustrascarpe e le bucataie

IlPiacenza è in caricamento