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Venerdì, 26 Aprile 2024
Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Il cuore di Porta Galera e l’osteria del “Bambèin”

Nel tratto finale di via Cavallotti (Roma) erano concentrate le osterie più famose e significative, reale specchio (positivo e negativo) della zona

Nel tratto finale di via Cavallotti (Roma) erano concentrate le osterie più famose e significative, reale specchio (positivo e negativo) della zona. Nel primi decenni del Novecento Porta Galera possedeva una cattiva fama, una notorietà derivata dal fatto che, anticamente, era luogo di pubbliche esecuzioni dei malfattori, una popolarità accresciuta per la presenza del cosiddetto “Col di Lana”, il bastione della Torricella nei cui anfratti e grotte esistenti in quel tratto di mura fortificate, si davano furtivi e fugaci convegni i “bulli”sfegatati, tallonati dai gendarmi di stanza nella vicina caserma della Neve di S. Anna, le cui irruzioni nei bunker della mala rionale, non riuscivano a sgominare i nuclei operativi che tornavano ad insidiarvisi anche dopo interventi repressivi massicci ed indiscriminati.

Negli stessi anfratti, spesso deposito di refurtiva, si rifugiavano a dormire gli spazzacamini che scendevano dalla Valle d’Aosta e delle regioni del Veneto a Piacenza, per svolgere il loro oscuro ed umile lavoro.

Zona dunque di sottoproletariato, di sbandati, un poliedrico microcosmo su cui dominava la schiatta autenticamente popolaresca dei Pellini, incontrastati boss del ghetto rionale, popolani che avevano fama di gran cuore, generosi, schietti, umanitari che davano ai diseredati, nella misura in cui toglievano ai ricchi, quasi nostrani “Passator cortese”; non si limitavano dunque egoisticamente ad arraffare e questo assicurava loro una quasi totale omertà da parte della popolazione locale.

La comunità dei “bulli” di Porta Galera subì un radicale contraccolpo con l’abbattimento della cancellata daziaria (che offriva molto lavoro agli “sfrusadùr”, ovvero al contrabbando….) e con la costruzione delle case popolari nell’area del vecchi Cantone Stalle. Un ulteriore contributo alla disgregazione di questo sottoproletariato che viveva alla giornata, fu determinato dal fiorire di notevoli attività economiche nella zona, già dai primi anni del Novecento.

Nell’arco di un decennio, nacque un giovane proletariato che si modellò, anche esistenzialmente, sui sistemi di crescita tecnologica e produttiva di quest’area; la gente cominciò ad avere la possibilità di un lavoro sicuro, il mezzo migliore per abbandonare la vita di stenti ed incertezze cui erano da sempre costretti.

Lo zuccherificio in Strada Caorsana, i Molini Rebora nei pressi della Stazione, gli incentivati traffici ferroviari, le Officine Meccaniche Piacentine, il Consorzio Agrario e decine di laboratori artigianali, offrirono nuovi posti di lavoro soprattutto per facchini, manovali, carrettieri,operai. Furono questi stessi uomini, con i rari “bulli” sopravvissuti a questa rivoluzione sociale, a popolare di sera e nei giorni di festa, le osterie più caratteristiche di Porta Galera.

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Osteria dal Leinsi: appena dopo Cantone del Pozzo, nella parte sinistra verso Barriera Roma. L’eccellente vino era direttamente pigiato e la cucina era attivissima già di primo mattino. Poiché la zona pullulava di lavoratori che fin dall’alba svolgevano un’attività manuale molto sfibrante, era necessario che già all’inizio della giornata, fosse loro offerto un abbondante apporto calorico a basso prezzo, soprattutto squisiti piatti di picula ‘d cavall e trippa.

Analoga descrizione culinaria per l’Osteria ‘d Cisò, ironicamente denominata anche “Sutmarèi” (sottomarino) per il caratteristico basso soffitto.”Cisò” si trovava appena prima ‘d la Curtàssa”, un ampio androne che immetteva in un vero e proprio alveare di nuclei familiari esercitanti generalmente attività a carattere artigianale. Era, con il Bambèin, l’osteria più frequentata della zona, meta non solo di “clasiòn”a base di fumanti “cudghèin”, ma anche luogo di cene e riunioni conviviali, allietate dalla musica di Carlèi Bobba detto “Al sòp” e dalla moglie “Orslèina” (Orsolina), non vedente; abitavano in Cantone delle Stalle ed il “passagallo”, ovvero suonare e cantare, passando da un’osteria all’altra, dava loro di che vivere.

Osteria dal Bambèin: una vera e propria leggenda del folclore popolare, nonostante non avesse nulla di particolarmente differente dalle altre. La sua fama è probabilmente dovuta al fatto che, quando venne abbattuta per far posto alle erigende case popolari, la stampa locale ( tra cui La scure del 27 agosto 1939), gli dedicò alcuni articoli. Quella che comunque più la legò alla fama delle successive generazioni, ci proviene da un articolo di Aldo Ambrogio che sulla “Giovane montagna” ce ne ha lasciato un preciso e colorito abbozzo; dopo di lui altri hanno scritto di questa osteria permettendo ancor oggi, assieme ad alcune immagini fotografiche e varie opere pittoriche, tra cui quella del compianto pittore Egidio Marulli, di possedere un chiaro, limpido squarcio di vita e costume della Piacenza dei primi del Novecento.

L’osteria dal Bambèin sorgeva a Barriera San Lazzaro, ora Roma e precisamente nell’isolato compreso sulla direttrice dell’ex Cantone Stalle (l’attuale via Capra), così denominato perché vi abbondavano gli stallaggi per il ricovero dei cavalli e delle carrozze adibite a lunghi percorsi o a servizi locali. Era un locale molto frequentato ed aveva il singolare vantaggio commerciale di trovarsi proprio all’imbocco della barriera, il che facilitava il richiamo delle genti del contado che si recavano in città con i calessi ed i tipici birocci e barre del tempo per gli affari di mercato. Il fatto che poi gli stallaggi fossero limitrofi, costituiva un vantaggio ancora più evidente per l’oste. Mancano documentazioni per provarne la sua antica origine ma, affermava Aldo Ambrogio, che da alcuni elementi se ne poteva far risalire l’origine addirittura al Medioevo.

L’osteria si componeva di due vasti ambienti a piano terra nei quali si scendeva da alcuni gradini in cotto. La bottega “con arco massiccio quasi a pieno sesto, era difesa da una chiudenda in legno spesso, a grossa chiodatura, bullonata con ribalta, a mo’ delle botteghe artigiane del Medioevo. Un piccolo basso, travato, portichetto correva lungo il fronte e proseguiva anche lungo altre casette successive e, sotto il portichetto, si aprivano altre bottegucce tipiche: una di maniscalco, un fabbricante di reti da pesca e cestaio, un negozietto di granaglie e stoviglie. Sotto il portichetto rozze panche in legno e tavoli greggi; nel periodo della bella stagione anche il fronte stradale era occupato da tavoli e panche”.

Qui gli avventori convenivano, specialmente nei giorni di festa, a mangiare ottimi salumi piacentini e dolce e saporita coppa di Vistino, o appetitose picula ‘d cavall, cotechini, muso di maiale, con gustoso pane a “crocetta”, “micc da lira” e a bere vino rosso proveniente da uve dei colli di Montalo di Ziano pigiate in loco.

Il vino si versava in boccali di terra verniciati di bianco con fiorami azzurri e si bevevo poi in scodellini dove il rosso genuino e generoso lasciava striature vermiglie.

Difficile stabilire perché si chiamasse “Bambèin”: alcune testimonianze parlano di una insegna sotto un lampione raffigurante un putto scolpito in legno dorato, opera di un abile intagliatore che l’aveva fornita al padrone in cambio del vino bevuto e mai pagato. Altri affermano che il nomignolo gli venne affibbiato dal fatto che l’oste avesse sostituito, tra i primi in città, i boccali di terra, con le bottiglie di vetro e con litri e doppi litri che, dalla loro linea a cono su cui si apriva il largo svaso della bocca di mescita, raffiguravano approssimativamente un bimbo in fasce; da qui l’appellativo di bambèin a questi doppi litri, termine molto in uso nelle osterie cittadine.

Ne abbiamo un’immagine (la foto ritrae, primo a sin, l’oste) di antica taverna, con figure di allegri ed ostinati bevitori: risse, schiamazzi, bravate, tafferugli alimentati da Bacco non mancavano di eccitare e surriscaldare il clima variopinto della vecchia bettola frequentata tra l’altro da uomini tutti dediti a lavori di forza. Ma erano “buriane” che passavano rapidamente: Tanòn (Gaetano) Borella, il gerente più popolare della locanda, uomo corpulento e rudemente affabile, all’occorrenza sapeva farsi rispettare, incaricandosi personalmente di riportare la calma ed adeguate regole di convivenza tra i più infuocati attaccabrighe. Un brindisi comune chiudeva rapidamente il contenzioso.

Il locale doveva parte della sua notorietà anche al fatto di essere il punto di approdo terminale di tutti i cortei funebri; lì, mentre i mesti parenti, seguivano a passo sostenuto il carro funebre verso il cimitero, gli amici sostavano a bere, nella singolare funzione di riconciliarsi quasi con la vita, dopo l’accorata mestizia della morte. Non per nulla, fino a qualche decennio fa, era ancora vivido nella memoria dei più anziani un distico coniato per l’occasione da tal Suèlli per un caro amico scomparso, come lui bontempone e diseredato: “Vai caro amico, che la terra ti sia leggera; noi andùm dal Bambèin a bev ‘dla bona barbera!”

Così prima che il defunto avesse varcato la soglia del camposanto e la sua bara fosse calata nella fossa, già all’osteria risuonavano gli schiamazzi degli amici che lo avevano seguito poc’anzi fino alla Barriera, sulla scia della mestizia e del cordoglio. Il barbera da Tanòn Borella aveva operato questa pagana metamorfosi.

Il cuore di Porta Galera e l’osteria del “Bambèin”

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