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In Alta Valnure / Farini

Allevatori in montagna al tempo della suina: «Serve un freno alle speculazioni»

“Itaca”, l’allevamento di suini più grande della montagna piacentina (3mila capi) a Moline di Farini: «Per fortuna da qui le scrofette escono per andare in altri allevamenti, altrimenti nel giro di sei mesi falliremmo»

Scordatevi i bei servizi in stile “Melaverde” o “Linea Verde” negli allevamenti di suini. La situazione del comparto è talmente delicata che è meglio rimanere fuori. Perciò con Stefano Repetti, titolare di “Itaca Srl”, un allevamento di scrofe a Moline di Farini, Alta Valnure, parliamo davanti al cancello dell’azienda e non all’interno. «Non si può entrare - si giustifica - abbiamo blindato tutto, nessun esterno può accedere. Ovviamente in conseguenza della peste suina africana».

Repetti, agronomo di Piacenza, nonni agricoltori («mio nonno paterno era il fattore del conte Pietro Anguissola Scotti») e lo zio materno titolare di un’azienda agricola a Podenzano, con un socio, il commercialista Leonardo Cogni, ha dato vita a questo allevamento in montagna.

In precedenza erano partiti dalla Val Camonica, in Lombardia, e dal lodigiano, con allevamenti di scrofe. «L’inizio nel 2013, il giro aumenta nel corso degli anni, ci siamo così guardati attorno, volevamo produrre anche in una zona isolata dalle grandi concentrazioni di suini». Nell’attività è impegnata anche la figlia di Stefano, Chiara, che ha 32 anni.

DALLA VAL CAMONICA A MOLINE DI FARINI

Dopo il successo in Lombardia i soci girano per la montagna e collina piacentina, fino a che individuano come ideale il sito di Moline di Farini. Siamo nel 2016 quando l’allevamento di scrofe parte: in questo luogo fino ai primi anni Duemila era operativo un caseificio, poi chiuso. Al tempo stesso decidono di realizzare un allevamento di verri (i maschi fertili dei suini) a Ponteceno di Bedonia (Parma), non troppo distante da Moline, dove invece tengono le “scrofette”, gli animali che vanno a sostituire le scrofe negli altri allevamenti produttivi.

«Qua - spiega Repetti - disponiamo di un sito che può dare le maggiori garanzie di protezione dalle malattie comuni che colpiscono i suini, quelle di forma batterica che virali. Moline è vicino alla Statale, intorno non ci sono allevamenti di suini, quindi abbiamo acquisito la proprietà, e siamo partiti anche con i contributi della Regione come bando Psr».

È il più grande allevamento della montagna piacentina. «Oggi abbiamo 3mila scrofe - prosegue l’imprenditore - prima della peste suina ne avevamo 2300. C’è molta automatizzazione, il personale è affezionato all’azienda, sa fare il suo mestiere e controlla che tutto proceda senza intoppi. Una volta è venuto a trovarci il presidente Stefano Bonaccini, era il 2018, è rimasto impressionato. Siamo un’attività in un luogo di montagna che conta cinque dipendenti, per la zona abbiamo “un peso”, dato che per i lavori ci affidiamo a ditte del posto».

«ODORI? ADESSO ENTRA IN FUNZIONA IL BIOGAS»

Il rapporto con il territorio farinese è buono. «C’è senso di appartenenza tra gli abitanti, la gente ci tiene alla cura e noi ci troviamo bene. Cerchiamo di tenere uno standard alto di produzione». Qualcuno a Moline si lamenta degli odori? «Qualche rimostranza c’è stata, però ora entrerà in funzione un nuovo impianto a biogas, già ultimato, che farà calare l’emissione di odori».

L’IMPATTO DELLA PESTE SUINA

La suina come ha cambiato la vostra attività? «Abbiamo delle condizioni di bio-sicurezza elevate, significa che soltanto i cinque dipendenti accedono agli impianti, con una loro routine d’ingresso e una serie di misure che ben conoscono. La suina ha preso tutti in contropiede, ci siamo trovati tutti a gestire una situazione di assoluta emergenza. Ora proseguiamo il nostro lavoro con tutte le dovute precauzioni, che comporta procedure amministrative non indifferenti, ma alle quali ci atteniamo. L’importante è non interrompere il ciclo produttivo».

Qualche esempio? «Ogni tre settimane le scrofe di 7-8 chili escono da qui per andare negli altri allevamenti. Al momento dell’uscita devono essere state sottoposte ad analisi e visite veterinarie, con spese in più, ma soprattutto un impegno logistico non da poco. Occorre fare il prelievo delle milze degli animali, per accertare l’assenza della peste, poi bisogna attendere l’esito. Se c’è qualche inghippo occorre annullare l’uscita e il viaggio».

«LE AZIENDE RISCHIANO LA CHIUSURA»

Da Moline verso gli impianti di macellazione escono soltanto le scrofe a fine carriera. «Siamo la parte alta della filiera produttiva, la nostra attività è quella di rifornire gli allevamenti». Ed è anche la “fortuna” della Itaca Srl, che non soffre la difficile situazione dei colleghi che ingrassano e mandano al macello. «Visto che Farini da tempo è in zona di restrizione 2, gli animali possono andare soltanto nei macelli autorizzati. Noi sentiamo meno il contraccolpo, se ci fossero stati qua gli animali da mandare al macello, sarebbe stato un bagno di sangue, nel giro di sei mesi dovremmo chiudere, salteremmo per aria».

IL PREZZO DELLA CARNE DELLE ZONE “2”

Il prezzo medio al chilo della carne è attualmente di 2 euro e 4-5 centesimi. «Però la carne che proviene dalla zona di restrizione 2 - fa notare Repetti - viene venduta anche a 1 euro e 40 cent. Un camion di suini che esce da allevamenti delle zone 2 adesso vale 15mila euro in meno. Un’azienda così fallisce, non ci sta più dentro».

«RIDURRE I CINGHIALI E TUTELARCI DALLE SPECULAZIONI»

Repetti, cosa si può fare per contrastare la suina? «Per limitare la diffusione della malattia bisogna ridurre il numero dei cinghiali. Vogliono usare l’esercito? I droni? I cacciatori del posto? I carabinieri forestali? Per me va bene tutto, ma si riducano gli animali selvatici, che aumentano i rischi di propagazione del virus. L’altra cosa che si deve fare è tutelare tutte le aziende che hanno preso tutte le misure di protezione e di bio-sicurezza, adeguandosi alle norme. Non dobbiamo subire le speculazioni del mercato. Le associazioni agricole si facciano valere, il singolo allevatore è disarmato di fronte al problema».  

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