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Storia piacentina

La storia dei salumi piacentini: Il Medioevo e la nascita di “maselèi” e lardaroli

Nel primo Medioevo a Piacenza per macellare i suini serviva addirittura la presenza del notaio. Bisognava infatti certificare che il maiale non pesasse meno di 250kg. Le carni suine lavorate nella provincia piacentina erano molto apprezzate anche dai negozianti di Milano e della Lombardia

«Questo libro vuole essere la testimonianza di ciò che siamo stati, ma soprattutto di ciò che desideriamo essere per il prossimo futuro». Così il presidente del Consorzio salumi Dop piacentini Antonio Grossetti chiude la sua prefazione al libro del giornalista Giuseppe Romagnoli pubblicato per l’importante anniversario per i 50 anni della costituzione del Consorzio e per i 25 dell’attribuzione del marchio Dop (unici in Europa) per ben tre salumi: coppa, pancetta, salame (in basso, la copertina del libro). Un riconoscimento ottenuto grazie all’impegno delle istituzioni locali, in primis la Camera di Commercio, ma soprattutto da parte dei soci produttori che sono riusciti nel tempo a migliorare sempre la qualità sia grazie all’innovazione tecnologica che conservando la tradizione produttiva.

IlPiacenza.it, grazie al Consorzio salumi Dop piacentini, pubblicherà a puntate, alcune delle parti più significative del libro.

SECONDA PUNTATA
Nell’antichità in Europa coesistevano atteggiamenti diversificati nei confronti del saltus (il bosco, l’incolto, la natura selvaggia). Gli storici evidenziano concordemente la dicotomia tra il sistema produttivo-culturale romano caratterizzato da una sostanziale estraneità verso di esso, e quello delle popolazioni germaniche, che assegnava allo spazio forestale e agli incolti un ruolo di grande importanza, strettamente integrato nel sistema di produzione.
Nell’alto medioevo le attitudini produttive e gli atteggiamenti mentali propri del mondo germanico si diffusero in un contesto di ampia degradazione del paesaggio coltivato. Erano improntati al rispetto e alla convivenza con la natura selvaggia: alla volontà di usarla, più che combatterla. Gli uomini erano pochi, potevano permettersi di farlo: prendere ciò che la natura metteva a disposizione, senza modificarla più di tanto. Le attività silvo-pastorali, l’uso degli spazi incolti ebbero allora una centralità indiscussa nel modo di produzione. La caccia, la pesca, l’allevamento brado del bestiame, la raccolta dei frutti selvatici, il taglio del legname divennero funzioni essenziali della sussistenza: forme economiche dominanti, più dell’agricoltura stessa.
Sebbene nei confronti del mondo naturale, il primo sentimento che emergeva era la paura alimentata dalla moltitudine di animali che vivevano nei boschi, la società altomedievale sembra istituire un rapporto tutto sommato positivo e pacifico con la realtà selvaggia, attraverso una dialettica di reale antagonismo, ma anche di quotidiana familiarità con i suoi abitanti. Queste caratteristiche emergono dalle testimonianze agiografiche del VI° secolo. Nei secoli centrali del Medioevo l’espansione dell’agricoltura è una conquista lenta e faticosa. Tale opera di colonizzazione, di allargamento fisico degli spazi coltivati, viene perseguita insistentemente dai contadini- coloni del IX-XI secolo che si fecero largo nel bosco, abbatterono alberi ed impiantarono nuove coltivazioni cerealicole. In quasi tutto il Medioevo convissero dunque atteggiamenti differenti del bosco. Sono in pratica i luoghi dell’estremo limite in cui l’uomo può avventurarsi e incontrarvi altri uomini, uomini selvaggi, che scambia prima per animali. Gli storici evidenziano il doppio volto della foresta medievale: era ad un tempo respingente e desiderabile. 
Come si pongono, nel Medioevo, gli uomini di fronte a questa realtà complessa e onnipresente? Ne hanno paura, perché il bosco è popolato di bestie feroci, di animali nocivi, di malviventi e di banditi, di ombre, di spiriti e divinità: ma la paura non è tale da scoraggiarli, da farli arrestare spaventati ai margini della selva. Certo, vi sono parti del bosco nelle quali gli uomini non si avventurano (come non citare la selva oscura dantesca…), ma nel complesso essi conoscono, percorrono, usano il bosco.
Se è vero che l’allevamento suino è praticato fin da epoche remote e in tutte le civiltà, per quanto riguarda l’Europa continentale e quindi anche la pianura, è col Medioevo che si diffonde in maniera capillare e stabile. Le invasioni di tribù germaniche tra il IV e il IX secolo determinarono profondi cambiamenti economici e negli usi alimentari. Per queste genti seminomadi il cibo per eccellenza era la carne ed in particolare quella suina. Si può stabilire una sorta di “confine” tra il prevalere dell’allevamento suino nelle aree più profondamente investite dalle conquiste barbariche, e quelle ad allevamento ovino dove il substrato “romano” resta predominante. Per tutto il millennio medievale le mandrie di maiali venivano allevati in stato di semilibertà nei boschi. Questa forma di allevamento era talmente importante che i boschi venivano “misurati” in base al numero di maiali che potevano nutrire. Le piante tipiche della foresta planiziale, faggi e querce in particolare, davano abbondante cibo, faggiole, ghiande e corniole, alle numerose mandrie suine. Molti documenti ci mostrano il guardiano dei porci battere con un bastone un faggio o, più frequentemente una quercia, per farne cadere i frutti tra le golose fauci delle mandrie. Altro indizio dell’eccezionale importanza dell’allevamento del maiale, sono gli statuti che regolano la figura giuridica del porcaro. A partire dal longobardo editto di Rotari fino alle leggi comunali e signorili, il porcaro è una figura prevalente e tutelata che emerge dalla massa dei servi addetti ad altri lavori agricoli, tanto che la sua uccisione o il suo ferimento comporta pene e ammende ben superiori rispetto ad altri lavoranti.
I maiali del Medioevo erano però ben diversi da quelli attuali. Erano piccoli, magri, snelli, abituati alla vita dei boschi e incrociati con i cugini selvatici; i cinghiali. Con la progressiva scomparsa, a partire dal basso Medioevo, della foresta l’allevamento brado venne sempre meno praticato e confinato in aree sempre più marginali, soprattutto nelle zone più difficili allo sfruttamento agricolo; lungo fiumi e torrenti e nelle brughiere. 
Fino a tutto il 1800 c’erano miriadi di razze dalle forme e dimensioni variabili. Ogni zona aveva la sua razza tipica, con caratteristiche fisiche e merceologiche ben identificate. Forse è qui l’origine della enorme differenziazione per forme, dimensioni, uso di parti del corpo dell’animale, impasto e mescolanza con altri elementi, dei vari salumi ed insaccati che sono presenti in tutta Europa ed in particolare in Italia. In Lombardia erano diffusi i porci neri, ma non ovunque, tra Brescia e Mantova era diffusa una razza bianca. Nel giro di pochi chilometri tra Emilia e Romagna, si passava dalla nera di Parma dal notevole peso e dalle carni sode, alla razza di Bologna più setolosa, alla cintata tra Reggio e Modena. Celeberrima nelle iconografie medievali la cinta senese, quasi scomparsa pochi anni fa ed ora fortunatamente recuperata ed allevata.Il fido suino non ha mai smesso, fino a tempi recenti di allietare e di rendere meno miserevole la mensa del contadino.

Il Medioevo a Piacenza
Nel primo Medioevo a Piacenza per macellare i suini serviva addirittura la presenza del notaio. Bisognava infatti certificare che il maiale non pesasse meno di 250kg. Una bella differenza rispetto ad oggi, ma le diversità connesse all’alimentazione sono palesi. Un tempo lo strutto e l’oleum lardinum (ottenuto dagli antichi per pressione e non fusione del lardo) ed il lardo erano indispensabili per una cucina basata sul grasso di maiale, presente in maggior quantità in maiali “pesanti”, un vero e proprio “marcatore” della cucina regionale emiliana e di quella locale piacentina. Ingrediente ben diverso dall’olio dell’Italia centrale e meridionale. La cucina del burro è invece relativamente recente e per lo più dotta e principesca, anche se Giulio Cesare in queste terre si meravigliò di mangiare asparagi selvatici cotti nel burro. Occorre giungere al XIV sec. per avere testimonianze del commercio di carni conservate nella provincia di Piacenza, rinvenibili negli antichi statuti cittadini. Da tali documenti si evince che la vendita al minuto delle carni conservate - carnes sicus - era riservata unicamente agli aderenti alla corporazione o “paratico” dei formaggiai, alcuni dei quali avevano banco stabile in piazza del Duomo. 

L’aumento del consumo di carni suine lavorate, portò successivamente alla costituzione di una specifica categoria di venditori, i “Lardaroli” che si aggregarono alla corporazione dei formaggiai, dando vita così al “Paratico dei formaggiai e lardaroli”, ribattezzato poi in quello dei “Bottegai”, tant’è che alla fine del ‘700 se ne contavano già oltre centottantasette iscritti. Le carni suine lavorate nella provincia piacentina erano molto apprezzate anche dai negozianti di Milano e della Lombardia tanto che, per differenziarle da quelle di altra parte dell’Emilia, erano solitamente caratterizzarle con l’appellativo “roba de Piaseinza”. Nei secoli successivi, sono numerose le testimonianze di apprezzamento dei salumi ed in particolare si ricorda il piacentino Giulio Landi, noto scrittore che viaggiò lungamente in Europa, il quale nella sua opera più famosa “La Formaggiata di Sere Stentato” del 1542, fa un esplicito elogio ai salumi della sua terra ed in particolare specificava le caratteristiche dei salami piacentini. Il Landi ricordava: “Tanto è di eccellente qualità il sale piacentino di che ne fanno fede i cervellati, le mortadelle, i sanguinacci, i zambudelli, et le salsicce et ogni altra sorte di salame, che qui da noi le donne fanno; il quale è delicatissimo, et di ottimo gusto, et certo sono i megliori salami che in Italia si faccino”. 

I salumi prodotti nel territorio piacentino sono stati spesso oggetto di dono ad illustri personaggi in visita alla città, tra i quali si ricorda, nel corso del 1500, gli arciduchi d’Austria Ridolfo ed Ernesto, figli di Massimiliano II, il principe Giovanni d’Austria, il cardinale Alessandro Farnese e la duchessa di Parma e Piacenza, Margherita d’Austria. Sempre al XVI sec. risale l’opera “La nuova, vaga et dilettevole villa” del domenicano Giuseppe Falcone, dedicata al conte Bernardino Mandelli, signore del feudo piacentino di Caorso. In questo manoscritto, il religioso dedica un intero capitolo alla carne di maiale, descrivendone dettagliatamente le pratiche di lavorazione e conservazione, quelle stesse pratiche che ancora oggi sono eseguite dai produttori locali. Tale opera si può considerare come il “primo disciplinare” conosciuto per la produzione dei salumi piacentini. “La carne salata di porco è meglio della fresca perché il sale gli leva l’umido. Prima che ammazzi il porco fallo stare un giorno senza mangiare e senza bere, perché si vuotano i ventrigli, la carne resta più asciutta e fansi le cose più pulite. Macella nello sminuire della luna, perché la carne resta più soda e non così facilmente si corrompe. Sia bel tempo, asciutto e facci freddo, perché la carne divien migliore e meglio s’insala”. L’attenzione agli aspetti produttivi ha davvero riscontro storico in documenti di quasi mezzo millennio fa, ed è ancora più incredibile il valore che veniva dato loro.
L’abilità nella macellazione e nella trasformazione delle carni divenne a poco a poco, nel piacentino appunto, un vero e proprio mestiere espletato da esperti norcini, chiamati in dialetto “maselèi” (dal latino macellum, mercato di carni), che durante i mesi invernali scendevano dalle zone montane recandosi a casa dei vari committenti per macellare i maiali e lavorarne le carni dietro un compenso prefissato dalla corporazione.
Nella prossima puntata il Cardinale Alberoni e Otto e Primo Novecento

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