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Venerdì, 26 Aprile 2024
Anticaglie

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A cura di Carlo Giarelli

Potere di vita e di morte

Vita e morte sono intimamente connesse in quanto una comprende l’altra. Ed entrambe sono legate ad un mistero. La vita, in quanto nasce e si sviluppa attraverso un insieme di condizioni di cui sappiamo i meccanismi fondamentali, ma non tutti i particolari, quasi infiniti, di tipo causale ed anche casuale. Ma anche la morte a sua volta...

Vita e morte sono intimamente connesse in quanto una comprende l’altra. Ed entrambe sono legate ad un mistero. La vita, in quanto nasce  e si sviluppa attraverso un insieme di condizioni di cui sappiamo i meccanismi fondamentali, ma non tutti i particolari, quasi infiniti, di tipo causale ed anche casuale . Dove si intrecciano elementi organici, psicologici, ambientali educazionali ed esperienziali che ognuno porta con sé in modo talmente soggettivo da costituire un elemento unico e non ripetibile. Ma anche la morte a sua volta,   dipende da tanti fattori in cui giocano altrettanti elementi che rendono possibile attraverso la scienza catalogarne  alcuni, ma non decifrarne altri, che esistono in sé anche se non lo danno a vedere. Per questa ragione esiste un mistero insolubile che fa dire a molti che la vita è quello che è. E che bisogna viverla fin tanto che è possibile. Con l’intento, o la speranza, di renderla appunto possibilmente accettabile. Il problema è il confine fra queste due realtà che a volte ci rimanda, metaforicamente parlando, ad un sottile filo che progressivamente si indebolisce fino a rompersi, come naturale evoluzione di un lento processo di consumo o consunzione. Mentre altre volte quel filo che classicamente  ci hanno insegnato tessono le Parche, è ancora tanto solido e robusto da non lasciare  prevedere un declino imminente o immediato. Le cause lo sappiamo sono tante  e diverse: malattie, incidenti, dissesti economici, lutti, e tutto il vasto e inesplorato settore della perdita della voglia di vivere che sembra non abbia una causa specifica. Se non quella di una vocazione suicidale che subentra nella mente e si fa strada modificando all’interno della cellula le normali funzioni molecolari, che invece di essere orientate alla vita, preferiscono giungere anzitempo a quella  conclusione che prima o poi diventa inevitabile per tutti. Esiste quindi un tempo in cui la vita e la morte si incontrano, senza necessariamente scontrarsi. Un tempo in cui per ognuno  sembra avverarsi, e non è un gioco di parole, la fine del  proprio  tempo. Che in altri termini significa mettersi davanti al proprio specchio e valutare se quell’immagine riflessa che ci rimanda, coglie ancora una residua voglia da parte nostra,  di indossare ancora una  maschera per un altro pezzetto di recita. Oppure se questo mascheramento ha esaurito ormai  la sua possibilità di finzione. 

E visto che mi sto impelagando in una questione troppo teorica, vengo allora al dunque. Al caso di Fabiano Antoniano, dj Fabo, che in seguito ad un incidente stradale avvenuto nel giugno 2014, nonostante le cure e tutti le sue speranza di  voler vincere il male, ad un certo punto non ce l’ha più fatta a reggere una parte, la sua, che gli sfuggiva da ogni lato. A 37 anni con un corpo passivo e a lui diventato estraneo, legato alla sopravvivenza da un tubo infilato in gola che rendeva possibile la sola funzione respiratoria,  nel buio della cecità  ha perso la luce della speranza ed ha chiesto, con quel che gli rimaneva di una voce da oltretomba, di farla finita. Ritorniamo alla metafora del filo ormai ridotto ad un solo filamento sottilissimo che però resiste ancora. E che non decide di spezzarsi in modo autonomo. Ma necessità di una mano estranea evocata, desiderata, ma  pur sempre pietosamente estranea. Ecco allora il punto che ancora una volta (ci ricordiamo il caso Eluana morta nel 2009 per interruzione dell’alimentazione parenterale dopo 17 anni di vita vegetativa  per desiderio esaudito del padre) infiamma l’opinione pubblica, e la politica ipocrita, se sia o non sia, lecito dare un ultimo strattone a quel filo che si ostina ad  indirizzare gli ultimi filuzzi ad una parte del corpo, mentre tutto il resto è privo di corrente vitale.  Insomma, è possibile l’eutanasia? E poi quale eutanasia quella passiva o quella attiva? E ancora, in mancanza di una legge parlamentare che i nostri politici si dimenticano di approvare per meri interessi elettorali o di bottega, possibile che bisogna ricorrere ad un giudice, affidandogli il diritto di vita o di morte?  Entro allora pragmaticamente nel merito, ed inizio dalla eutanasia passiva. Inutile fingere che questa sia un problema. Da sempre nelle corsie ospedaliere la cura si porta fino alle estreme possibilità di trovare un rimedio anche minimo che comunque garantisca la vita. Ma c’è un però. Ed è quando le sofferenze sono tali e tante per una patologia (di solito tumorale) che lascia prevedere solo pochi istanti di vita,  da indurre a pensare che la giusta cura stia nell’alleviare le sofferenze inutili, soprattutto quando richieste dal malato Come? Somministrando calmanti in dosi un po’ più elevate, rispetto all’abituale, per vincere il dolore, specie quando questo diventa straziante. E soprattutto quando  sembra fine  a se stesso, e per giunta contro la stessa volontà del paziente. Così facendo si anticipa di qualche minuto o di poche  ore il decesso. Ed il medico prova anche  la soddisfazione di aver reso una buon  servizio, in termini di cura, al paziente che in quel suo stato di assopimento non si accorge nemmeno del tragico trapasso. O meglio se ,se ne accorge, non dimentichiamo che la coscienza non  è solo quella che ci appare, la dedizione del curante e l’amore di chi gli tiene una mano , lo rende sereno. E’ l’espressione del viso che ce lo dice. Chi  ha provato come medico, lo sa.  La mimica del volto  perde certe pieghe cutanee  legate allo spasmo muscolare per assumere di fronte al mistero della morte una  regolarità di espressione che fa pensare alla nascita di  una nuova speranza che sembrava ormai perduta. Col risultato di trasformare, almeno interpretando l’aspetto visivo, la morte in vita.  Sembra paradossale ma è così. E tale comunque è la mia esperienza. Ho promesso di essere pragmatico con  la  eutanasia passiva e lo sarò altrettanto con quella attiva. Qui la questione  riguarda il diritto alla morte da parte di chi per tanti motivi che non è il caso di precisare, non ci sta più a reggere il peso della vita.  Ebbene, da cattolico,  ritengo legittime entrambe queste due posizioni che tenterò di spiegare. Appunto perché muovono da due concezioni diverse. Di chi crede che la vita sia un dono di Dio e quindi non può sentirsi autorizzato a compiere un gesto che vada contro il volere di  Chi ci ha dato questa strana cosa che è la vita, ritenendo che  solo la  morte sopraggiunta per cause naturali giustifichi la sua interruzione. E qui non vedo nulla da eccepire, per l’uomo di fede, se non l’impiego della terapia anti dolore cui accennavo prima, soprattutto se richiesta da parte del paziente. Ma, nella società, ci sono anche i laici. Quelli cioè che ritengono la vita un insieme di eventi, di circostanze, di cose volute e insieme non volute, per le quali  non viene compreso però l’elemento soprannaturale.   Per loro non esiste il cielo, se non come fatto fisico e tutto si decide in terra. Ebbene per questi laici, come imporre una visione religiosa della vita e della morte? Non sarebbe possibile, se non per fare un passo indietro nella storia. Quindi per loro, è coerente, esercitare il  (sacrosanto!) diritto  di interrompere la vita, quando questa pesa oltre la normale sopportazione.  Come d’altra parte, essi sostengono, sia lecito praticare, questa stessa interruzione, nel grembo materno ricorrendo all’aborto. Questo per noi cattolici potrà anche rincrescere, ma non giustifica a mio avviso una imposizione verso chi crede  in altro modo. Perché tutti noi infatti crediamo, se non altro per rendere la vita o una preparazione ad una seconda, quella eterna, o una confortevole illusione. Quindi per concludere, diamo a Dio quel che è di Dio e all’uomo quello che a lui  sembra essere di sua proprietà. E soprattutto facciamo in modo che non sia un giudice a stabilire la liceità di una condotta. La coscienza e/o la fede sono più che sufficienti.            

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