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Libertà di pensiero

Libertà di pensiero

A cura di Carmelo Sciascia

Piergiorgio Bellocchio: “Diario del Novecento”–tra evoluzione ed involuzione

Ci sono libri che esigono di essere letti fino in fondo anche se la loro lettura può risultare faticosa. Una lettura che può risultare faticosa ad esempio perché riguarda libri voluminosi, teniamo conto che non siamo più abituati a leggere molto ma solo a vedere immagini. Una lettura può risultare faticosa anche per difficoltà del lettore stesso dovuta a cause fisiologiche legate spesso all’età cronologica, la lettura può diventare come il lavoro fatica fisica: bruciore degli occhi, tensione muscolare comunque). Da giovani si leggeva delle ore instancabilmente, contenti di apprendere e di avere una fedele compagnia, fedele perché si sceglieva il testo, a tradire semmai, non fosse piaciuta, sarebbe stato il lettore che l’avrebbe abbandonato.

Un altro motivo della difficoltà di leggere un libro voluminoso è costituito dalla sensazione di smarrimento che si prova quando i riferimenti (storici, politici, culturali) sono così tanti da renderci faticoso poterli comprendere tutti quanti e comprenderli “onestamente”.

Ho terminato un libro, voluminoso e dai mille riferimenti, proprio come accennato, ma devo dire con sincerità che dopo aver letto (e riletto alcune pagine), pur stanco sono rimasto dispiaciuto che sia terminato. Avrei letto ancora ma non si può leggere ciò che non è stato scritto: un libro è solo le pagine che lo compongono.

Il libro in questione è Diario del Novecento di Piergiorgio Bellocchio. Personaggio che non ha bisogno di presentazione: letterato, critico, scrittore, giornalista, editore, politico ma soprattutto un uomo del suo tempo, un intellettuale sincero del Novecento. Un Novecento in cui è cresciuta la mia generazione e sono rimasto ancorato: per nascita, per formazione culturale, per concezioni politiche. Avrei voluto leggere tutte le opere con le quali il Nostro intrattiene il lettore, perché di una lunga conversazione si tratta: sulla letteratura, sul cinema, sulla politica. Ma devo confessare di non conoscerle tutte e quelle conosciute non sono state approfondite come avrebbero meritato. Nella vita si fanno attività per vivere e attività per sopravvivere. Per vivere, dopo essermi laureato, mi sono interessato di pittura e di letteratura, per sopravvivere, cioè affrancarmi dal bisogno, ho fatto il ferroviere, così come Daniela Cremona che viceversa da ferroviera frequentava la Statale di Milano. Daniela frequentava la facoltà di Lettere e Filosofia, credo per i miei stessi motivi motivi, così come ho visto fare a tanti altri ferrovieri, a tanti lavoratori dagli anni Sessanta in poi. Ed è stato grazie proprio alla tesi di laurea sui “Quaderni piacentini” della Daniela che è nata l’amicizia del professore Gianni D’Amo con l’intellettuale Piergiorgio Bellocchio. Amicizia che ha generato, tra le altre iniziative, questo libro, voluto e curato diligentemente da Gianni. Dicevo che lavorando in ferrovia ed avendo famiglia di tempo per approfondimenti culturali ne rimaneva ben poco, tanto da dover tralasciare gli interessi puramente culturali, per riprenderli a tempo pieno nella seconda maturità.

A ben vedere, un diario è il quaderno della vita quotidiana. Il Diario del Novecento non fa eccezioni, si alternano descrizioni autobiografiche e riflessioni letterarie, si alternano e si inseguono. Ciò avviene a volte in modo naturale, altre dandosi reciproche spallate.

Come dicono i sommeliers annusando il calice: questo vino ha un bouquet ampio e variegato: fruttato, profumato e quant’altro. Un bouquet: un insieme di vari fiori, diversamente colorati, diversamente profumati. Così come questo libro. Così come un bouquet, questo libro non è solo un libro ma tanti libri messi insieme, assemblati, messi uno dopo l’altro o se si preferisce uno accanto all’altro o ancora uno dentro l’altro. Libri che si completano, come le osservazioni su certi personaggi che, di volta in volta, rimandano ad altre pagine, oppure vengono lasciate lì a decantare per essere riprese più avanti, dopo molte pagine (anni diversi) con altre considerazioni, mai le stesse, mai in contraddizione. Il Diario riguarda il Novecento, più precisamente l’ultimo ventennio. O meglio ancora, il libro riguarda note scritte dal 1980 al 2000 ma che comprendono tutto il Novecento, come non disdegna, anzi se ne compiace, di fare escursioni nell’Ottocento ed oltre. Il Novecento è stato un secolo drammatico e violento, la Grande guerra, la Rivoluzione russa, il fascismo e la seconda guerra mondiale. Il ventennio di fine secolo ha rappresentano la pietra tombale degli ideali degli anni sessanta e delle conquiste degli anni settanta, secondo Bellocchio ha rappresentano il trionfo del berlusconismo: “di chi non ha nessuna cultura, nessuna tradizione, nessun valore, nessuna convinzione…. Salvo la difesa dei propri interessi, la paura e l’odio per la sinistra”. La restaurazione politica e la desertificazione culturale. Ma il problema dell’Italia non è solo il berlusconismo, come giustamente ci fa notare Bellocchio, è il popolo italiano “inguaribile minorenne”: “ignorante e pavido, incapace di essere serio, di rinunciare ai sogni, ai miraggi, al lotto, al totocalcio, ai Campi dei Miracoli, votato ad essere turlupinato da Gatti e da Volpi, Acchiappacitrulli, Omini di Burro”.

Nonostante gli impegni del lavoro e la famiglia sono riuscito a mantenere sempre un certo interesse per la politica ed una vivace curiosità letteraria. Per questo posso affermare di aver letto tutto di alcuni scrittori e di conoscerli abbastanza bene tanto da poter dire anch’io qualcosa a proposito. Ho compreso e condiviso il giudizio di Bellocchio sul Pinocchio di Collodi, che è poi il riferimento alle “Avventure di Pinocchio” il libro edito nel 1883, che tutti conosciamo. Collodi rimane lo scrittore maggiormente citato nel Diario. Pinocchio delle Avventure lo lessi alle elementari ed ho poi riletto altre volte, fintanto che non mi sono imbattuto nella prima versione “La storia di Pinocchio” del 1881. Credo che quest’opera (La storia) possa ascriversi nel campo della letteratura ossianica che tanto Ottocento letterario ha caratterizzato. Non a caso Italo Calvino aveva classificato questa prima versione del racconto di Pinocchio come l’unico romanzo del Romanticismo nero e fantastico italiano.  La classe sociale cui appartiene il burattino e suo papà, mastro Geppetto, è ben rappresentata, si tocca con mano la loro miseria come di tanta parte della popolazione che in quegli anni viveva o meglio sopravviveva a malapena di piccoli lavoretti, se non di veri e propri espedienti. Nelle “Avventure” Collodi insegue e persegue un obiettivo pedagogico, una morale positivista che raggiunge il suo culmine nella metamorfosi del burattino che diventa un bravo bambino con tanti buoni propositi. Nella “Storia” invece non c’è rinascita, Pinocchio viene impiccato, morirà portando con sé i suoi quattro zecchini d’oro che teneva sotto la lingua. Quasi un antesignano di Mastro Don Gesualdo, personaggio noto per il suo attaccamento alla “roba” da portare con sé nell’al di là, (sarà casuale il fatto che la pubblicazione dell’opera dello scrittore catanese vedrà la luce da lì a pochi anni?). Le colpe di Pinocchio non conoscono remissione. Quasi come Giuda Iscariota. Per altro è sempre una questione di denari. E di tradimenti: divini o umani che siano. Ecco avrei voluto trovare in un critico attento come Bellocchio anche questa differenza tra le due edizioni del Pinocchio! Sono persuaso (fatto non secondario) che “Le avventure di Pinocchio” del 1883 non possono essere considerate il logico proseguimento della” Storia di Pinocchio” del 1881. Anche se dello stesso Autore sono e restano due libri diversi. Nella concezione ideologica come nella concreta realizzazione estetica. Ed io, anche se so di essere in netta minoranza, preferisco la prima! Nonostante tutto e malgrado il Nostro non abbia fatto nessun riferimento alle due edizioni, concordo nel giudizio morale e nelle considerazioni politiche sulle Avventure di Pinocchio. Il Diario è un bel patchwork letterario (messo giù nel migliore dei modi) dove ognuno può trovarci di tutto e ricavarne libere e diverse considerazioni. Dopo Collodi come numero di citazioni credo ci sia Pier Paolo Pasolini. Di Pasolini ho letto e studiato tutto. “Le ceneri di Gramsci” è stata perfino un’opera oggetto di un esame universitario.

Ho letto anche Petrolio che, non so per quale motivo Piergiorgio aveva trascurato.   Bellocchio si capisce bene strizza l’occhio al Pasolini politico, gli interessa di più  l’homo politicus, che non il regista o il poeta. Ma credo siano aspetti inscindibili, le sue poesie, i suoi film, la sua critica letteraria, della complessa e composita personalità dello scrittore friulano. La visione politica dell’eretico è la sua morale, tutta l’opera pasoliniana può essere considerata in blocco un’etica politica o una politica dell’etica! Mi è sembrata azzardata la divisione dell’opera pasoliniana e addirittura la scomposizione che a tratti fa capolino tra le pagine del libro in anni diversi, come la si fa con il manzo: i tagli di prima (Il critico, il poeta), i tagli di seconda (narratore) e di terza (regia cinematografica, drammaturgia). Secondo Bellocchio si salvano alcuni film (Accattone, La ricotta, uccellacci e uccellini…) mentre non ha saputo dirigere un’attrice come Anna Magnani in Mamma Roma (“forse Pasolini non aveva il mestiere e l’autorità per farlo”), giudizio che mi lascia perplesso. A tratti sembra contraddirsi, nell’elogiare alcuni lavori e nel criticarne altri, alla fine prevarrà comunque l’onestà intellettuale che lo ha sempre distinto e contraddistinto: “Ma poi il poeta e il narratore, il cineasta e il sociologo, l’ideologo e il critico militante concorrono a formare un autore unico, lo scrittore più originale, il testimone più forte, drammatico e profondo della cultura e della storia italiana dell’ultimo mezzo secolo”. Prosit! “con Pasolini ero d’accordo anche quando aveva torto”, così Leonardo Sciascia sull’amicizia che lo legava allo scrittore corsaro.

Ed a proposito di Sciascia nelle pagine che riguardano il 1990 troviamo una nota che farà discutere. La provocazione ha esercitato spesso in letteratura un effetto positivo, poneva un problema portandolo alle estreme conseguenze, diventava una contraddizione stridente, insostenibile, ciò che in filosofia veniva definito un paradosso, e sappiamo quanto beneficio ha arrecato il paradosso allo sviluppo del pensiero critico. Così Bellocchio giudica negativamente l’opera dello scrittore racalmutese. Forse un paradosso? Come in Zenone, Achille non raggiungerà e non supererà mai la tartaruga. Così Sciascia, dopo Le Parrocchie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia ed Il giorno della civetta non capirà più nulla, “rien de rien”: “La sua visione della società siciliana dentro la società italiana va in tilt, non ci capisce più niente”. “Soccu c’è scrittu leggiri si voli”, sì proprio così, ciò che c’è scritto va letto, nel suo più vero e profondo significato. I proverbi sono saggezza popolare ed allora leggiamo cosa scrive ancora Bellocchio su Sciascia. Da ottimo maestro elementare che era diventa professorino neo-illuminista e quando scrive Il Consigli d’Egitto e Morte dell’Inquisitore si compiace per l propria erudizione (si pavoneggia).

La fama di Sciascia è sproporzionata, è un piccolo cultore di siciliani notevoli, di Pirandello apprezza il lato funambolico, uno storicuzzo o spigolatore di cose siciliane, di aneddoti, un po’ metafisico. Metafisico anche nel giallo (contravviene alle regole dell’induzione e della deduzione), scrive sul mistero Majorana ignorando qualsiasi problema scientifico, la Sicilia e la politica italiana (di cui ha perso le coordinate) diventano i grotteschi metafisici di Todo modo. L’involuzione di Sciascia si può così riassumere: neo-realista, neo-illuminista, neo-metafisico. Diventa famoso e sarà conosciuto all’estero perché “pittoresco” (prototipo meridionale napoletano, siciliano o magari sardo). Perfino l’aspetto fisico rispecchia le caratteristiche dello scugnizzo (faccia da ragazzetto bruttino e vivace). Nell’Affaire Moro lo scrittore vestirà il ruolo del “bravo avvocatino”: si sarebbe dovuto porre delle domande cui dare risposte di cui non poteva ignorare le risposte.  A parte le due foto in bianco e nero, una che ritrae un giovane dall’aspetto sornione e simpatico e l’altra che ritrae un maturo signore, pensoso con sigaretta, delle due paginette su Leonardo Sciascia credo di critica letteraria non ci sia nulla da prendere seriamente: è tutto un esercizio sul paradosso!

Ad una attenta lettura, tutta l’opera di Leonardo Sciascia come la sterminata opera critica che lo riguarda smentisce quanto scrive il compagno Bellocchio, ogni libro ha i suoi buchi neri, queste pagine sullo scrittore siciliano sono dei paradossali buchi neri (credo si possa dire anche se non si è astronomi, così come Sciascia ha potuto scrivere su Majorana senza essere scienziato).

Tutto l'impegno politico e tutta l’opera letteraria di Leonardo si può riassumere in due parole: "giustizia e verità". Ed aggiungo, cosa non c'è oggi di più attuale quale urgenza politica e culturale? Sciascia ha continuato a scrivere sempre fino alla fine dei suoi giorni su fatti di mafia e di giustizia. Con cognizione di causa, con onestà, con una scrittura precisa e sintetica (un bisturi linguistico).  Basti pensare a ciò che contiene il suo ultimo piccolo libro “Una storia semplice”: un libro semplicemente complicato e vasto, sulla politica, la società e la mafia, pubblicato proprio il giorno della sua scomparsa!

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