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Venerdì, 26 Aprile 2024
Libri piacentini

Libri piacentini

A cura di Renato Passerini

"Barbone"

Mio padre, dopo il pensionamento dal Servizio di Dirigenza in Banca d’Italia, si era ritirato a Loano, una ridente località sul mare della Liguria di Ponente, alla quale perciò erano diventate frequenti ed usuali le mie visite, insieme con la mia giovane famiglia. “Loano” era un richiamo; era il piacere di una gita, in genere domenicale, o dal sabato; ed era il gusto di una giornata di incontro; nonché, per alcuni anni, di un piccolo periodo di vacanza approfittando della presenza familiare. Ed in tale circostanza era d’uso per me e mio padre incontrarci ogni mattina al tradizionale bar, per consumare assieme il “cappuccino”, la “brioche”, per comperare i giornali, e per conversare fra noi delle più o meno solite cose. Erano ore iniziali della mattinata, gustate con lui nell’ ancora “frescura” delle ore, innanzi al “Caffè” di Via Aurelia, fra un “dondolio” ed un “cornetto alla marmellata”, mentre ancora la temperatura estiva dell’ora era “vivibile” ed il viavai della gente in vacanza non era fastidioso. La “lunga” figura snella e signorile, la sua cultura e bonaria ironia, la sua semplicità di animo, mi donavano compagnia da tanti anni, fin dai miei studi liceali e poi universitari; in sostanza, da quando, io quattordicenne, avevo perso repentinamente ed inaspettatamente mia madre, gioviale e giovanile. E allo stesso modo di quegli anni ancora di studio, ora amava tenere compagnia a me e a mia moglie, e ai nostri due bimbi, suoi nipotini, nei giorni di Loano. Mio padre era un generoso; umile, pur nella sua signorilità e pur nella sua non umile origine sociale, e alta professionalità svolta. Era generoso ed affabile. Quel che si definisce “vero signore” nel senso più bello e positivo del termine. Una mattina, una delle tante mattine di quegli anni fine Ottanta in cui ero con lui come d’uso, all’altezza d’un angolo cittadino nei pressi della sua abitazione lì a Loano una figura maschile, abbastanza trasandata nell’abbigliamento, si imbatté in lui. Era un po’ più alto della media, quel tanto da non poterla definire bassa: una giacca stropicciata e consunta, una postura lievemente ricurva, il volto incorniciato da una barba incolta. Insomma, un uomo all’incirca pressoché sessantenne, del quale si avvertiva chiaramente una vita di stenti e di “lunario” giornaliero, condotta attraverso briciole di elemosina routinaria.

Vedendo mio padre, lì, sull’angolo lungo il quale con me stava svoltando, quel Tizio si fermò; e mio padre gli fece un saluto cordiale, spontaneo. Umano. Poi gli regalò la tradizionale “millelire” e gli offrì una sigaretta. Capii che era un incontro abbastanza periodico. Il Tizio gli sorrise, pensoso: e gli disse, pacato: “Grazie. Lei è l’unico che mi tratta da “persona”. Papà gli sorrise, e gli augurò Buona Giornata. Io ero lì, vicino; guardai, notai; “vissi” tutto. E quell’incontro non mancò di farmi riflettere. Poco più di un anno dopo, purtroppo mio padre mancò. Perdevo una persona che mi era stata “amica” per anni, con la sua colta compagnia, con quella sua presenza assidua nella Piazza del nostro paese originario ove egli, dopo la morte di mia madre si era volontariamente ritirato, e con le sue quotidiane abitudini di vita, i giornali, il caffé, l’ironia simpatica e bonaria, la sua cultura, il suo animo; spesso le sue non lievi amarezze; una persona che io avevo finito per considerare quasi mio “portafortuna” (non nel senso scioccamente superstizioso, ma affettivo) nei miei esami universitari, da quando, da una casuale “prima volta” accompagnatomi per pura compagnia in Università in occasione di un mio esame, che si era concluso con più che felice esito, aveva in seguito amato venire con me varie altre volte in successive analoghe occasioni, sì da trascorrere un po’ di tempo in modo diverso dalla sua routinaria giornata. E mi attendeva pazientemente al rituale “Caffè” degli studenti e dei docenti, il tradizionale Caffé di Via Mezzocannone, la nota Via adiacente all’Ateneo “Federico II°” di Napoli, ricca di librerie universitarie. Oppure lo ritrovavo ad attendere la mia “uscita” dall’aula d’esami trionfante, nel grande corridoio della Facoltà di Giurisprudenza; quello stesso ampio corridoio per il quale 35-40 anni prima avevano “camminato” anche i suoi passi, ed avevano vagato le sue ansie e i suoi sogni.

Per lui, accompagnarmi all’Università era diventato una sorta di rivivenza della “sua” giovinezza universitaria; significava rivedere quelle medesime aule nelle quali egli stesso aveva sostenuto esami, aveva frequentato lezioni, aveva ascoltato il “grande” Professor Arangio-Ruiz di Istituzioni di Diritto Romano (col cui “tremendo”genero tra l’altro, Professor Guarino, io avevo sostenuto brillantemente in quei miei recenti anni quel medesimo esame, “bestia-nera” per tutti gli studenti della Facoltà, con “quel” Professore), o aveva frequentato le Istituzioni di Diritto Privato con l’allora “luminare” Professor De Ruggiero. Per papà, significava, approfittando di quei momenti con me in Università, respirare ancora – come fosse stato “ieri” – la “sua” giovinezza, la “sua” vita universitaria; rivivere quella “unica” Gita Universitaria eccezionale da lui goduta a Torino e a Padova nei suoi tempi di studente di Giurisprudenza, e della quale tante volte, tante e tante, mi aveva narrato, e della quale conservava negli Album di famiglia una dolcissima fotografia di gruppo, ricca di nostalgie. Significava per lui, venendo con me all’Università, addirittura il rivedere la figura di quel medesimo ormai vecchio “bidello” della Facoltà, quel “signor Castiglia” che alla sua epoca era di “freschissimo pelo” giovanile, e che, dopo una vita trascorsa in quel corridoio della Facoltà, ‘sì da esserne una … istituzione, ormai era ovviamente alle soglie della pensione. Insomma, per mio padre era un respirare ancora un po’di quella ‘aria da lui “respirata” un tempo, e poter godere del proprio figlio in quegli anni ‘Sessanta, ormai purtroppo senza mia madre che ci aveva lasciati per sempre tre anni prima, in pochi istanti: un “ictus” in ancor pienezza vitale e di vitalità ce l’aveva tolta nel giro di venti minuti, all’improvviso! Per me mio padre era dunque diventato un motivo di compagnia “spirituale”. Appunto una sorta di … “zampa di coniglio”, capace oltretutto di tranquillizzarmi nella mia consapevolezza di avere una persona che “sapeva” la mia materia, una persona che “conosceva” ciò che io studiavo. Mi sarei accorto dopo, di quanto mi sarebbe mancata la sua “figura”. Di quanto grossa sarebbe stata la ferita della sua, benché ovvia, dipartita.

***

La bara era lì, ai piedi dell’Altare della vasta navata della Parrocchia di Loano, e Don Alessandro, con scarne ma terribilmente “piene” parole, lo “ricordava” nella grandezza dell’animo. Nelle doti di generosità. Nella signorilità “di cuore”.

La celebrazione funebre in Chiesa volse al termine. La bara stava per varcare il Portale centrale della Chiesa: io la seguivo, lentamente, con mia moglie, con i miei tre figlioli di 17, 15 e 4 anni. Si era ormai sul punto di attraversare la soglia d’uscita del Tempio, quando il mio sguardo fu casualmente ma istintivamente attratto da una persona seduta in disparte, nell’angolo tra il Portale d’uscita e il muro. Era una persona assai umile nell’aspetto. Direi trasandata nel vestire. La quale se ne stava ad un paio di metri, in una semioscurità, distaccata dal resto dei fedeli. Una barba incolta gli incorniciava il volto consumato. Al passaggio della bara si alzò, si inchinò; e fece un cenno; come di saluto. O di preghiera. E rimase in quell’angolo appartato. In piedi; in una luce soffusa, una semiluce, un semibuio. Mestamente. Poi, si avvicinò, discreto, tremebondo, facendo un timido cenno di carezza verso quella bara che oltrepassava la soglia:

“Solo lei mi trattava da uomo”, fu il suo sussurro silenzioso. Vi riconobbi, solitario e riverente, “quel” mendicante “habitué” di periodico casuali incontri con mio padre ; il “suo” mendicante. “Quel” mendicante di “quella” mattina di un po’ di tempo prima. “Solo lei mi trattava da uomo”, fu il suo sussurro silenzioso. Parole amare, secche fermate nell’aria, trasportate dal vento della memoria. Penetratemi dure, con la forza d’un dardo, nel mio silenzio di comparsa. Fissai muto, quel mendicante; sull’angolo di quella navata. Per un attimo. Per quell’attimo fuggente che la situazione del momento mi consentiva. Un attimo celere, fugace. Ma “lunghissimo”. Mi volarono intorno un turbinìo di visioni, di riflessioni, tanto rapide e fulminee quanto intense: mi tremolò come in una dissolvenza nebbiosa, in un antico disegno di luce, pacata e fugace l’immagine di mio padre, la usuale sigaretta da lui sempre donata a quel poveretto, il sorriso della parola sempre offertogli, l’obolo spontaneo coniugato con l’anima. Il sorriso della “dignità riconosciutagli”. Al passaggio della bara quell’ Uomo si era alzato, si era inchinato; aveva reso un cenno , di saluto. O di preghiera. Ed era rimasto in quell’angolo appartato, in piedi ; in una luce soffusa, una semiluce, un semibuio. Mestamente. “Solo lei mi trattava da uomo”: era stato il “Saluto” di “quel” barbone. Il quale, rimanendo in disparte, isolato, emarginato da un mondo strano ed estraneo, non aveva “dimenticato”.

                                                                                              ****

Ritrovo una vecchia foto sfogliando un libro di “Diritto”: vecchio, antico “momento di passeggio” con mio padre. La giro tra le mani: tanti oggi che si susseguono, tanta storia che vive, che passa. Un solo “ieri”, unitario, un tutt’uno: torre fatta di giorni, di anni; miriade di fotogrammi incanalanti la vita; che solcano la strada del tuo cammino, lento, agile, grave, leggero, gioioso, doloroso; storia di vita, somma di tante storie, in una giocata progressiva di parole, di incontri, di affetti. Di solitudini. Un film, racchiuso in un pugno: nel quale serbi, stretti, i tuoi sogni dell’ieri, le tue realizzazioni, le tue illusioni disilluse. Nel pugno di una mano stringendo i Valori in cui hai creduto, coi quali hai camminato. Nei quali, gridandoli, ti rifugi, aggredito da un mondo irridente che ne fa merce di risata becera. Ma non allenti quel pugno della tua mano: nel cui palmo invece conficchi forti le unghie delle tue dita tra le quali mantieni stretti quei Valori, tua Fede, disfatti da una notte umana cieca e sgretolante come fondale di cartapesta.

 Vecchia foto ingiallita trovata in un libro di “Diritto”; vecchia foto d’un “ieri”, attimo lontano dell’ “oggi continuo” che è la vita, attimo vicino d’un tempo veloce, soffio nel quale scorrono senza respiro celeri i fotogrammi del tuo vissuto, in un avvolgimento metodico della pellicola della vita. E rivivo mio padre. Rimembro gli studi, le passeggiate, gli insegnamenti. La sua voce. Le voci di famiglia. Di contorno. Combatti in una contraddizione eterna dell’anima: che ti lacera; e ti rasserena; e poi ti lacera ancora. Accarezzi gli affetti che vivi. Ripasseggi, fantasma, nell’ “ieri”. In un crudele amarcord. Vecchia foto, ingiallita, in un vecchio libro di “Diritto”: assieme, testimoni di parole, di incontri, di passi, di sogni. Di sacrifici. Di traguardi e di illusioni; di aspettative e di utopie. Di Fede. Di Fede talora ferita. Mai sconfitta. E “dentro l’anima”, rivivi quell’ “ultimo saluto” donato a tuo padre: di riverenza, di stima, spontaneo. Il saluto “umano” di quel “suo” barbone, da tutti emarginato. Da tutti rifiutato. Non da mio padre.

                                                                                             

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