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Piacenza Nostra

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A cura di Cesare Zilocchi

" Vita professionale al Comune di Piacenza, vita politica locale sotto traccia, ma abbastanza tribolata. Più tranquilla quella di giornalista pubblicista (""pubblicista"" come fu Einaudi, si parva licet componere magis) collaboratore dei quotidiani Libertà, Il Giorno, La Voce, La Cronaca, oltre che di varie testate periodiche. Ho pubblicato anche una diecina di monografie per i miei 22 affezionati lettori (due meno di Manzoni e uno meno di Guareschi) su temi disparati ma sempre tenendo un sentiero ben tracciato: di tutto ciò che riguarda appieno, o di striscio, Piacenza Nostra. "

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Tracce piacentine nell’assassinio del duca Carlo III di Borbone ?

Gli Stati di Piacenza e Parma durarono tre secoli. Due sovrani morirono assassinati: Pierluigi Farnese nel 1547, Carlo III di Borbone nel 1854. Se del primo evento conosciamo responsabili e motivazioni, del secondo sappiamo molto meno

Gli Stati di Piacenza e Parma durarono tre secoli. Due sovrani morirono assassinati: Pierluigi Farnese nel 1547, Carlo III di Borbone nel 1854. Se del primo evento conosciamo responsabili e motivazioni, del secondo sappiamo molto meno.

Un uomo accostò il duca che passeggiava tranquillo nel centro di Parma e gli vibrò un colpo nel ventre. Forse un coltello, forse una lima appuntita, la ferita nel giro di un giorno lo portò all’altro mondo. Carlo III era odiato da molti sudditi, nobili e popolani. Non lo sopportava nemmeno la moglie, Luisa Maria di Berry, che a corte aveva un suo “partito” ostile al marito. Del Borbone di Parma il Cavour aveva fatto l’emblema dei cattivi sovrani austriacanti e quindi del “problema italiano”. Per quest’ultima ragione Carlo III  era diventato un ingombro anche agli occhi di quelle che lui stesso chiamava le “cariatidi rimbambite” di Vienna.  

Erano quindi almeno quattro i potenziali ispiratori dell’assassinio: i dignitari vicini a Luisa Maria; la corte imperiale di Vienna; il Piemonte (fortemente sospettato dalle autorità spagnole); i liberali piacentini o parmigiani. Senza dimenticare una quinta ipotesi: l’isolata azione esemplare  di stampo anarco-mazziniano.

Il processo, che si concluse nel marzo 1857, non individuò alcun colpevole. In via informale si mormorò di un sicario venuto da Piacenza  e a Piacenza tornato subito dopo; quindi mai caduto nelle mani della polizia. Il termine sicario presupponeva comunque  un mandante,  e perciò  l’esistenza  di un complotto  che invece non fu mai provato. E nemmeno  sostenuto  in sede processuale. Andiamo per ordine.

Carlo III odiava i liberali piacentini (specie se proprietari terrieri) e i “pretacci”  amici della moglie. Diffidava pure degli austriaci coi quali non andava punto d’accordo sulla politica estera. Snobbava  i mazziniani di Parma, buoni – a suo dire – a far rivoluzioni solo dopo aver alzato il gomito. Per costoro pensava bastasse la pena del bastone.

Nel tardo pomeriggio del 26 marzo, il duca in divisa da ussaro passeggiava col suo attendente in Strada Santa Lucia. Un uomo basso di statura  lo accostò,  gli vibrò una stilettata al basso ventre, si liberò del tabarro dileguandosi rapidamente tra i capannelli della gente. Ventiquattro ore dopo le campane rintoccarono a lutto.  

La polizia operò alcuni arresti, tra i quali il maggior indiziato: Antonio Carra, di professione sellaio. Nonostante fosse caduto in alcune contraddizioni,  l’uomo venne scarcerato l’8 aprile. Una seconda ondata di arresti portò ad accentrare i sospetti su tale Ireneo Bocchi,  indicato da alcuni testimoni ma scagionato da tre donne.

Due agricoltori parmigiani emigrati in Corsica testimoniarono di aver saputo del regicidio a Bastia sette ore prima che avvenisse. Gli inquirenti si avviarono quindi sulla ipotesi del complotto architettato per tempo (e con cura) da gente ben al di sopra dei Carra e dei Bocchi.  Una parte nella svolta della inchiesta l’ebbe anche la strana deposizione, resa 22 giorni dopo il delitto, dalla contessa Brigida Galli Leoni di Piacenza. Alcuni giovani benvestiti e molto disinvolti parlavano in un crocchio ad alta voce di un attentato al duca che si sarebbe messo in atto il giorno 20 marzo in contrada Santa Lucia. La contessa piacentina, fingendo di allacciarsi uno stivaletto, poté ascoltare tutto quanto proseguendo ad armeggiare con i lacci per una diecina di   minuti.  Ad attentato avvenuto  tenne la cosa per sé, poi, consigliata da un amico, rese testimonianza al procuratore di Piacenza.  Gli inquirenti a quel punto ebbero paura di finire in un pericoloso tunnel e – incredibilmente -  cincischiarono, tornando a lavorare sulla pista del mazziniano isolato.

Vienna defenestrò il barone Lederer, plenipotenziario austriaco a Parma, raccomandò  la massima cautela e suggerì  di riannodare sentimenti d’ intesa con la vedova, duchessa  Luisa Maria. 

La notte del 12 giugno venne – a sorpresa –  pugnalato mortalmente alla schiena il giudice  istruttore Antonio Gabbi e ciò rafforzò i sospetti sui mazziniani che l’inquirente aveva rimessi nel suo mirino.

Al contrario Lederer vi lesse un ulteriore prova del complotto al quale la corte e la stessa duchessa non dovevano essere estranei.  Comunque fosse, a parere del  nuovo plenipotenziario, l’omicidio di Carlo III andava visto come “opportunità”  per  costringere ulteriormente gli Stati Parmensi nell’orbita di Vienna onde contrastare le mire dell’ imperatore  Napoleone III e del conte di  Cavour. I quali, va ricordato, avevano condotto insieme la guerra contro la Russia e costituivano quindi un  pericolo anche per l’Austria.  Insomma, la morte del duca Carlo III, per ragioni diverse,  non  dispiaceva proprio a nessuno.

A processo archiviato, negli ambienti influenti di Parma  si fece strada una convinzione: la congiura era partita da Torino, sorretta da un gruppo di persone di spicco, sia  parmigiani che piacentini. Costoro si erano avvalsi per il delitto della manovalanza mazziniana locale. In particolare il capo dei congiurati nobili sarebbe stato il piacentino conte Ferdinando Douglas Scotti, fedelissimo dignitario della duchessa. “Ambiguo individuo che, secondo l’ex medico di corte  Rodolfo Benninger, era partito da Piacenza, fermandosi però a Borgo San Donnino finché il duca non fu spirato” (da Bianca M. Cecchini, La Danza delle Ombre, 2001).   

Il conte Douglas Scotti  sembrava  dunque la persona giusta per fare da trait d’union fra  i  ricchi liberali piacentini e il Piemonte da un lato,  la  sovrana  reggente dall’altro (la quale – guarda caso -  aveva prontamente espulso l’archiatra Benninger dai suoi ducati).  La ragion di Stato avrebbe poi indotto il governo  di Vienna a tenerci il dito.

Benninger sostenne  che tutta Parma riteneva il conte Ferdinando Douglas Scotti  capo della congiura e che Luisa Maria, pur essendone informata non aveva detto niente al marito.

Aggiunse che il processo venne frettolosamente archiviato; che ai sicari imputati furono dati soldi e documenti;  che infine vennero espulsi  con l’ordine di non tornare negli Stati parmensi, così che la verità non potesse  mai riemergere.  Fantasie o scomode verità ?

Luigi Mensi, nel suo Dizionario Biografico Piacentino (1899),  di Ferdinando Douglas Scotti scrive:

“.... attaccato ai Borboni, li servì fedelmente; uomo di corte  fu rigido osservatore e mantenitore delle ducali prerogative. Quando Carlo III venne a prender possesso di Piacenza e Parma lo volle al suo fianco; lo volle quando andò a prendere la duchessa; e quando la sera del 26 marzo 1854 cadde colpito da ferro omicida, egli volò a Parma e consacrossi tutto all’assistenza della vedova duchessa. Quando poi per l’incalzarsi degli eventi nel 1859, Luisa Maria fu costretta ad abbandonare lo Stato, essa volle che lo Scotti l’accompagnasse al sicuro; e anche dopo lontana, egli continuò a prestarle i servizi di suddito a sovrana;  dalla quale poco prima di morire in Venezia, fu nominato suo esecutore testamentario ...”.

Ferdinando Douglas Scotti morì il 23 settembre 1879 senza  avere mai  – per quanto si sappia -  detto o scritto alcunché sul mortale attentato del 1854. Il mistero rimane. 

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