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Cronaca

«Se non torni con me non vedrai più nostro figlio»

Un marocchino accusato di stalking verso la convivente. Drammatica testimonianza della donna in aula che in lacrime ha raccontato la convivenza difficile di 8 anni. «Mi minacciava e non voleva che il bimbo giocasse con le bambine o con giochi femminili”

Sarebbe arrivato a progettare un piano per portare via il figlio pensando anche di ucciderla. E’ quanto emerso all’udienza del processo che vede imputato un marocchino di 40 anni, accusato di stalking nei confronti della ex compagna di 35, una donna della provincia di Lodi con la quale aveva vissuto a Piacenza. Davanti al giudice Gianandrea Bussi e al pm Monica Bubba ha deposto la vittima, che più volte è stata travolta dall’emozione nel raccontare ciò che aveva vissuto. Soprattutto quando parlava del piccolo figlio, le lacrime le sono scese sul viso. E non sono bastati né i lunghi capelli né la mascherina a nasconderle. L’uomo è difeso dall’avvocato Simona Bracchi, del Foro di Cremona, mentre la ragazza si è costituita parte civile con l’avvocato Mara Tutone.

I due, secondo il racconto della 35enne - oggi vive con i genitori e non lavora più a Piacenza - avevano convissuto dal 2008 al 2016, avendo un figlio nel 2011. A gennaio del 2016, lei decide che non può più sopportare quella vita e lo lascia: «Voleva che io mi comportassi come chiedeva lui. Teneva tutti i soldi che io guadagnavo, perché all’epoca non lavorava. In seguito aveva trovato un impiego.  Si occupava poco di nostro figlio, curato da me e dai miei genitori». Una volta lei decise di dormire dai genitori, nel Lodigiano, e il giorno dopo arriva la prima minaccia: «Se non torni a casa, non vedi più tuo figlio». Impaurita, era tornata a Piacenza, «resistendo a una vita di vessazioni». La giovane ha raccontato che il padre si arrabbiava se il figlio giocava con le bambine o con giocattoli ritenuti femminile “perché sarebbe diventato gay”.

L’ultimo dell’anno del 2015, un fatto fa precipitare la situazione.  Dopo il ristorante, i due litigano. Lui prende il bimbo e lo porta in auto alla stazione, mentre alla compagna dice di tornare a casa a piedi. Davanti a questa scena il bimbo in lacrime chiamava la mamma. Erano gli ultimi giorni della convivenza. «Dormivo chiusa in camera con mio figlio - ha detto al giudice - perché lui temeva che, e mi minacciava, di non andare da mia madre. Una mattina, portai il piccolo a scuola, preparai una valigia ere ne andai».

Comincia allora, secondo le accuse della donna, la persecuzione. Minacce verbali - lui andava a cercarla sul posto di lavoro - messaggi al cellulare (di diverso tenore, dal “ti amo, torna” fino a “non rivedrai più tuo figlio”), a tutte le ore. I due lavoravano in negozi vicini, in città, e lui spesso le portava il bimbo davanti alla vetrina. «Al bambino - ha continuato la 35enne - diceva che io ero incapace e che non c’erano soldi perché li spendevo tutti io».

Lei decide di querelarlo e si reca alla sezione investigativa della Polizia locale. Gli agenti iniziano le indagini, con pedinamenti e intercettazioni. «Avevo paura - ha proseguito - e non andavo più al lavoro da sola, ma mi facevo accompagnare». Lui è anche andato a casa sua e i genitori avevano chiamato i carabinieri. Senza, però, trovarlo ha detto un militare in aula rispondendo a una precisazione della difesa. Mentre in un’altra occasione, lo avevano trovato con i genitori in strada e lo avevano accompagnato in caserma: lui si lamentava che lei non gli facesse vedere il figlio. Il bambino venne affidato alla donna dal Tribunale e dispose anche che lui doveva versare gli alimenti al bambino. Il padre aveva avuto il diritto di vedere il figlio in determinati giorni e orari. Ora, è un anno che non lo vede. «Io non mi opposi agli incontri - ha detto lei - e chiesi al bimbo se voleva vedere il papà. Lui rispose di sì».

Una ragazza, durante le indagini, venne convocata dalla Polizia locale che così venne conoscenza del piano per “prendersi il figlio”. Questa ragazza raccontò che lo aveva sentito dire che avrebbe portato il bambino all’estero e che avrebbe ucciso la donna. Gli investigatori fecero scattare un piano di protezione per la 35enne che prevedeva controlli a vista vicino al luogo di lavoro.

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