«Il manifesto di Levoni con Verdi e il precedente dell’arcobaleno»
Dicono che Levoni ha rubato Verdi. Cosa che non si può fare, perché dicono Verdi appartiene a tutti, anche agli stonati, anche a certi
registi, scenografi, costumisti
che ci vanno giù con una grazia e un rispetto che spesso mi chiedo
cosa questo povero vecchio di 209 anni
gli ha fatto di male
perché costoro lo odino così tanto.
Dicono che...
E cos’hanno fatto altri? Ci hanno rubato l’arcobaleno, e anch’esso appartiene a tutti.
Eppure nessuno ha protestato.
Nessuno ha detto: giù le mani dall’arcobaleno.
Eppure l’Arcobaleno ce lo ha detto con chiare parole:
Io sono il solo Arcobaleno
e tu non avrai nessun altro
Arcobaleno all’infuori di me.
Non rubateci l’incanto dell’unico vero Arcobaleno
Tempo fa in una pagina di una mia operetta rievocai uno sconcertante episodio, protagonista addirittura John Keats. Ad una cena con amici, alzando il calice per un brindisi il pallido poeta inglese inaspettatamente disse: “Sia maledetta la memoria di Newton”. Gli amici ammutolirono. Io, sia chiaro, non ero della compagnia, ma se lo fossi stato gli avrei sicuramente chiesto: “Perché, John, maledire così il povero Newton?”. E Keats mi avrebbe sicuramente risposto, come realmente rispose: “Perché con la sua scoperta della rifrazione della luce sul prisma mi ha rubato l’incanto dell’arcobaleno”. Allora tutta la tavolata si trovò d’accordo nel maledire Newton. Ma mettiamo ora un momento che io cerchi e trovi in fondo all’antro scuro di qualche rigattiere il famoso calice della maledizione. Lo cerco e lo trovo fra la tetra confusione di quella bottegaccia di robe vecchie non perché desideri vederlo mandare ancora i sinistri bagliori dell’invettiva, ma perché il suo cristallo è ancora lucido del perduto incanto dell’arcobaleno. Lo prendo e glielo riporto. I morti perdonano i vivi, se i vivi hanno qualcosa da farsi perdonare. In ogni modo non penso che il romantico lirico ne abbia ancora bisogno per un ultimo brindisi e un’altra maledizione… Glielo porto sulla sua tomba a Roma, tra Porta San Paolo e il Testaccio. Ma…“Buttalo quel calice, fallo a pezzi – mi dice appena mi vede – Non voglio più maledire nessuno”. Poi: “Ho capito cos’è un arcobaleno. E’ più di un sentimento, più di una poesia, anche più di un simbolo”. Arcobaleno, intanto mormorava, rainbow in inglese, arc-en-ciel in francese, regenbogen in tedesco, arcoìris in spagnolo, arcus caelestis in latino, iris in greco antico… In tutte le lingue del mondo i suoi colori portano pace e si dissolvono nell’aria come una nube dopo la tempesta. Non appartiene solo ai poeti, ma a tutti. La sua tomba nel cimitero romano la vedo come vedessi l’urna greca della sua grande Ode. E da lì le sue parole colmano di dolcezza il vecchio calice svuotato di ogni risentimento. Mi dice: “Non è la bandiera di nessuno. Ma se dev’essere proprio una bandiera, allora è solo la bandiera del cielo. E’ il segno d’alleanza che Dio traccia sulla cupola dell’universo. E’ la sua firma”. Me lo sto sognando, d’accordo, dopo una notte di brindisi e di sbornia alla Keats, ma non è lo stesso straordinario che il poeta mi parli in sogno e mi dica: “E’ la parola magica che parte dalla terra e va su come un ponte da una sponda all’altra del firmamento e dall’alto dei cieli proclama a tutta la sottostante umanità: Io sono il solo Arcobaleno. E tu, uomo, non avrai nessun altro Arcobaleno all’infuori di me”.
Umberto Fava