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Venerdì, 26 Aprile 2024
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Amnesty lotta per fermare l’esecuzione di Ahmadreza Djalali

Al “Samaritano” ricordato l’impegno dell’associazione per il medico e scienziato di origini iraniane condannato a morte

Durante l’ultimo incontro del percorso di mondialità consapevole organizzato dall’Università Cattolica – dal tema "sulla stessa barca, il futuro poggia sulle spalle di chi coltiva la speranza" – Amnesty ha riportato l’attenzione su un caso internazionale. I partecipanti all’incontro hanno dedicato un momento al caso di Ahmadreza Djalali per fermare l’esecuzione a morte annunciata dalle autorità iraniane. Ahmadreza Djalali è un medico scienziato di origini iraniane di 45 anni residente in Svezia. Docente e ricercatore in medicina dei disastri e assistenza umanitaria, ha insegnato nelle università di Belgio, Italia e Svezia. Lavora nel campo della Medicina dei disastri dal 1999 e ha scritto decine di articoli accademici. Ha lasciato l’Iran nel 2009 per un dottorato di ricerca presso il Karolinska Institute in Svezia, poi presso l’Università degli studi del Piemonte Orientale e la Vrije Universiteit di Bruxelles, in Belgio.

«Nel 2016 – ricorda Amnesty - è stato arrestato dai servizi segreti mentre si trovava in Iran per partecipare a una serie di seminari nelle università di Teheran e Shiraz. Nel 2017 è stato condannato a morte e a pagare 200.000 euro di multa per “corruzione sulla terra” (efsad-e fel-arz) dopo un processo gravemente iniquo davanti alla sezione 15 della Corte Rivoluzionaria di Teheran. Il verdetto della corte ha affermato che Ahmedreza Djalali ha lavorato come spia per Israele nel 2000. Secondo uno dei suoi avvocati, il tribunale non ha fornito alcuna prova per giustificare tali accuse. Il giudice non ha fornito una copia del verdetto e ha invece convocato uno degli avvocati il 21 ottobre 2017 per leggere il verdetto in tribunale».

«Djalali ha affermato che, mentre era in isolamento, si è visto ricusare per due volte un avvocato di sua scelta ed è stato costretto a fare “confessioni” davanti a una videocamera leggendo dichiarazioni pre-scritte dai suoi interrogatori. Ha detto che è stato sottoposto a pressioni intense con tortura e altri maltrattamenti, incluse minacce di morte, anche verso i figli che vivono in Svezia e la sua anziana madre che vive in Iran, al fine di fargli “confessare” di essere una spia. Ahmadreza Djalali nega le accuse contro di lui e sostiene che siano state fabbricate dalle autorità. In una lettera dell’agosto del 2017 scritta dall’interno della prigione di Evin, afferma che sono state le autorità iraniane nel 2014 a chiedergli di “collaborare con loro per identificare e raccogliere informazioni provenienti dagli Stati dell’Ue. La mia risposta è stata “no” e ho detto loro che sono solo uno scienziato, non una spia”. Il 24 ottobre 2017, durante la sua conferenza stampa settimanale con i giornalisti, il procuratore generale di Teheran, Abbas Ja’fari Dolat Abadi, ha detto senza specificare il nome di Ahmadreza Djalali, che “l’imputato” aveva tenuto diversi incontri con l’agenzia di intelligence israeliana Mossad e che forniva loro informazioni sensibili su siti militari e nucleari iraniani in cambio di soldi e della residenza in Svezia. Da novembre 2020, Djalali non può comunicare con la moglie e i due loro figli, che vivono in Svezia. Le uniche informazioni sul suo conto, provenienti dai suoi legali, parlano di un grave stato di salute. In suo favore si sono pronunciati oltre 120 premi Nobel in discipline scientifiche. Dopo oltre 2180 giorni di detenzione, le autorità iraniane hanno annunciato che intendono eseguire entro il 21 maggio la condanna a morte di Ahmadreza Djalali, ricercatore esperto di Medicina dei disastri. Il ricercatore di passaporto iraniano e svedese, che ha lavorato anche in Italia presso l’Università del Piemonte Orientale».

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