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Annibale: in mostra al Farnese anche un topolino reduce dalla battaglia?

A giorni s’aprirà qui a Piacenza una spettacolare mostra su Annibale, il condottiero che portò la sua guerra a poche leghe dalle mura della nostra città

A giorni s’aprirà qui a Piacenza una spettacolare mostra su Annibale, il condottiero che portò la sua guerra a poche leghe dalle mura della nostra città. Sì, ci fu molto rumore, allora: fu la famosa battaglia del Solstizio d’inverno, che andò sotto il nome di battaglia della Trebbia. Ma le cose accadono sempre due volte. Quando accadono la prima volta, si perdono poco dopo, come pitture su un selciato alla prima pioggia. Accadono una seconda volta quando si ricordano, e allora è come ridipingere – rinverdendole coi gessetti – quelle pitture perdute sul vecchio selciato. E’ allora che la Storia di Tito Livio diventa l’altra Storia da Batracomiomachia. E’ un gioco che dura fin dall’antichità, dai tempi della “Guerra dei topi e delle rane”, ossia dalla “Batracomiomachia” dello Pseudo-Omero, e poi anche dai “Paralipomeni della Batracomiomachia” del Leopardi.

La mia “Batracomiomachia” non è proprio mia. La devo ad un occhialuto topo di biblioteca che l’ha scoperta su una sbrindellata cartaccia dimenticata in fondo ad uno scaffale. E’ una storia finora segreta e inedita, e svela come andarono veramente le cose quella volta sulla Trebbia. Una versione che contrasta non poco con quella narrata da Livio nella sua “Storia di Roma” (“Ab Urbe còndita Libri”).

Secondo tale rivoluzionaria narrazione, il duo romano Publio Cornelio Scipione -Tiberio Sempronio Longo ebbero una trovata più che geniale, genialissima, da volpi della Pianura: fu quella, fidando sull’ancestrale incompatibilità fra topi ed elefanti, di arruolare un contingente di topi da fiancheggiare alle legioni. E i topolini risposero molto patriotticamente alla chiamata alle armi, accorrendo in massa da tutti i villaggi e le cascine che si stendevano da Placentia al Varghèr, topi d’ogni genere, di città, di campagna, di fogna, di biblioteca, di formaggio ed anche di battaglia.

Un esercito da far invidia all’esercito di Serse, che ancora oggi si agita nella tomba mangiandosi le unghie dalla rabbia per non aver avuto mai questa splendida idea. Si schierarono tutti in campo e in armi, per difendere dall’invasione africana la loro terraiola e fluviale patria padana e insieme i loro nativi granai, cantine, soffitte, magazzini, sottoscala e ripostigli. E i gatti? I soliti infingardi. Con l’aria che tirava tra il Varghèr e Placentia, non si vedeva girare un gatto neanche a pagarlo. Accesasi la famosa battaglia, le schiere grigiocenere – con in testa reparti di arditi – si lanciarono sveltamente fra le gambone degli elefanti stranieri, notoriamente allergici ai topolini quanto i gatti all’acqua. Averli fra i piedi fu per i panzer pachidermi di Annibale un trauma da dar giù di testa. I bestioni s’imbizzarrirono mica poco, cominciando a scalciare come cavalli matti, a ondeggiare come montagne se le montagne venissero prese a morsi dalle tarantole sulle parti più tenere del sedere. Poi si diedero a sgroppare paurosamente, a saltare, addirittura (secondo la testimonianza di alcuni villani del contado) a ballare il can-can, facendo volar via i guerrieri che portavano sulle torrette e che non avevano alcuna voglia di mettersi a ballare il can-can coi loro elefanti.

Ah, l’estetica delle belle battaglie antiche e delle belle eroiche bandiere al vento! Finì che gli elefantoni cartaginesi voltarono il culone ai topolini padani e si diedero alla fuga, schiacciando nella furibonda ritirata tutti i combattenti levantini che  incontravano, facendone marmellata di more.

A sempiterna memoria dell’impresa topesca, fu dato incarico ad uno scalpellino che girava per bricchi e groppi del vicino Appennino di scolpire una statua  del topo piacentino vincitore dell’elefante cartaginese per un monumento da innalzare sulle rive gloriose della Trebbia. Sul piedistallo lapidaree parole: “Piccolo è meglio”.

Tempo dopo, in epoche di revisionismo storico, accanto al monumentino al topo padano dentuto e roditore venne inaugurato un monumentone all’elefante di Annibale. Fu allora che il topo disse all’elefante: “Scostati che mi fai ombra”.0f141567eda6067eb710764f558d3d2b_L-2

E il panzer proboscidato obbedì. Siccome l’elefante ha come si dice una memoria da elefante e si ricorda ancora oggi dopo secoli di quel che accadde in quella storica battaglia del Solstizio, tanto che ancora oggi provate a mostrare a un elefante soprattutto africano un topolino e vedrete cosa succede, dato tutto questo l’elefante si spostò e trotterellando - splasc splasc splasc - dentro l’acqua della Trebbia andò a sistemarsi sull’altra sponda, in faccia.

Così destino ha voluto che topo ed elefante – è l’ultima pagina della loro  favolosa Batracomiomachia – si guardassero eternamente in cagnesco, ma a distanza, uno da una parte, l’altro dall’altra parte del ponte, e in mezzo l’acqua – tumultuosa o quieta – del fiume. Tanto che sul piedistallo dell’elefante scrissero con altrettante lapidaree  e filosofiche parole: “Lontano è ancora meglio”.

Ma la storia ha una coda… Che non è il codino di un topo, ma la morbida coda di un gatto. Nessuno si chiede dov’è finito mai il monumento al topo, che non si vede più? E’ stato disgraziatamente portato via da una piena?

Nossignori… Chiedetelo ai gatti, i soliti infingardi, invidiosi e gelosi. Dopo anni che tutti i miao-miao della Valtrebbia ci sono andati a grattare per farsi le unghie, cosa volete che ne sia rimasto del monumento, che era stato molto padanamente scalpellato dentro un tronco di pioppo delle boschine?

Però, detto fra noi, un topolino alla mostra di Annibale potete anche mettercelo, no? Uno solo, simbolicamente. Basta che sia rigorosamente piacentino doc. Non potete? Avete ricevuto dall’altro mondo una sua telefonata? Vi ha diffidato? Minacciato? Non azzardatevi, vi ha detto? Se no torno. Ma mica con un esercito. Col pifferaio di Hamelin, me lo tiro dietro dall’Ade. Voi avete il Po, vi ha detto, e il pifferaio ha il piffero magico. Capito Annibale che stratega?

Umberto Fava

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