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Famiglie nobili a famiglie storiche: l’evoluzione nella trasformazione della Repubblica

Considerazioni sulla nobiltà e para-bobiltà nel XXI Secolo

1) Dal Medioevo a Napoleone, per aver accesso alla nobiltà si poteva andare a combattere contro gli infedeli in Terra Santa, oppure più semplicemente acquistare con lo scopo di aumentare il proprio patrimonio “giurisdizioni feudali” su luoghi abitati o inabitati (diritto di macina, diritto di passaggio, diritto di sepoltura, diritto di pesca ed un’altra miriade di diritti) e se si otteneva così l’investitura del sovrano e si entrava in questo modo a far parte della nobiltà. Sebbene da noi il feudalesimo sia finito all’inizio del XIX secolo, esiste tutt’ora, sia pure in misura limitata, nel Regno Unito dove persistono i Lords of the Manor, una sorta di relitto feudale il cui acquisto permette alcuni diritti che, sebbene non siano di natura nobiliare, possiedono un valore storico indiscutibile, ma si faccia attenzione perché non tutto quello che è offerto sul mercato è vero e valido. Sebbene il titolo di Lord of the Manor - Signore del Maniero - non sia mai stato un titolo nobiliare, è comunque certamente fra i più antichi. 2) Dopo Napoleone la nobiltà diventa semplicemente un elevato “onore ereditario” che veniva concesso: in pratica il sovrano concedeva un titolo nobiliare che veniva trasmesso alla discendenza all’infinito.  Quello che un tempo era un onore nobiliare, oggi nella Repubblica Italiana lo possiamo paragonare al conferimento dell’onorificenza di Cavaliere del Lavoro, di gran lunga il sistema premiale più prestigioso del nostro Paese, che è destinata ai cittadini italiani, anche residenti all'estero, «che si siano resi singolarmente benemeriti», segnalandosi «nell'agricoltura, nell'industria, nel commercio, nell'artigianato, nell'attività creditizia e assicurativa» e che, come è noto, viene concesso ai più importanti e significativi personaggi, che hanno contribuito alla grandezza del nostro Paese. Per sottolineare l’importanza e il prestigio dell’onorificenza di Cavaliere del Lavoro basta considerare che la stessa viene concessa ogni anno a soli 25 cittadini italiani, mentre le concessioni nobiliari del passato erano diffusissime (si pensi che nel XVIII secolo a Piacenza, su una popolazione di circa 30.000 abitanti, i nobili erano più di 1.500, quindi superavano il 5% della popolazione stessa!).  La nobiltà nella Repubblica Italiana: con l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italia il 1° gennaio 1948, alla disposizione transitoria e finale XIV si legge: “I titoli nobiliari non sono riconosciuti. I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922, valgono come parte del nome. L’Ordine mauriziano è conservato come ente ospedaliero e funziona nei modi stabiliti dalla legge. La legge regola la soppressione della Consulta araldica”. La Costituzione semplicemente dice che i titoli nobiliari non hanno alcun valore per l’ordinamento giuridico, “non costituiscono contenuto di un diritto e, più ampiamente, non conservano alcuna rilevanza”, ovvero è come se non esistessero; e i predicati quale ricordo storico (ma solo quelli riconosciuti dal regno d’Italia prima del 28 ottobre 1922, instaurazione del regime fascista), fanno parte del cognome avendo valore unicamente cognominale, divenendo così una eredità storica incorporea, che come tale passa a tutta la discendenza, e non solo a chi era riconosciuto nel titolo nobiliare. Pertanto se i predicati sono “parti del nome”, il titolare può trasmetterli applicando il codice civile a tutti i suoi discendenti (legittimi e naturali) e anche agli adottivi, come qualsiasi cognome.  La frenesia di sentirsi “nobile” - in un ordinamento che non può riconoscere nessuno come tale - ha causato nel passato e causa nel presente molte richieste di modifiche del cognome utilizzando i più svariati escamotage, come ad esempio i lodi arbitrali resi esecutivi dal Presidente del Tribunale e registrati negli atti di stato civile; ma anche spesso ricorrendo persino a Tribunali ecclesiastici (in realtà competenti solo per gli atti di stato civile anteriori al 1° gennaio 1866), giungendo ad ottenere la rettifica di atti di nascita e battesimo, matrimonio e morte per poi pretendere la correzione allo stato civile. Queste modifiche di cognome, che vogliono far credere quello che non è, diventano poi davvero deprecabili quando basate su falsificazioni documentali, spesso anche rudimentali. Fortunatamente la digitalizzazione dei documenti permetterà nei prossimi decenni la conoscenza della verità e impedirà finalmente gli assurdi abusi di coloro che sino ad oggi hanno imperversato proponendosi come discendenti di personaggi storici che non sono mai esistiti, almeno nel loro ceppo familiare.  Successivamente la Corte costituzionale con la sentenza 26 giugno 1967, n. 101, ha dichiarato incostituzionale la legislazione araldico - nobiliare nei limiti in cui ad essa si dà applicazione per l’aggiunta al nome di predicati di titoli nobiliari, ed ha stabilito che la tutela del diritto attribuito dal 2° comma della XIV Disposizione transitoria e finale della costituzione italiana sotto ogni aspetto deve seguire le regole che il vigente ordinamento detta per la tutela del diritto al nome.  La grande portata della sentenza 101/67 della Corte Costituzione sta nel dimostrare chiaramente che non esiste più un ente ufficiale statuale che si occupi di tutelare i titoli nobiliari come in precedenza aveva fatto la Consulta Araldica, né potrà mai più esservi, visto che i titoli nobiliari «non costituiscono contenuto di un diritto e, più ampiamente, non conservano alcuna rilevanza», né potranno essere emesse sentenze dall’Autorità Giudiziaria dichiaranti il diritto di determinate persone a un titolo nobiliare. Ancora interessante è la sentenza della Cassazione civile, sezioni unite, 24 marzo 1969, n. 938, che ha testualmente confermato l’incostituzionalità della legislazione nobiliare se usata “quale veicolo per giungere alla cognomizzazione del predicato ex nobiliare [...]”. Ma allora cosa è possibile fare oggi in Italia per tutelare le proprie “eredità incorporee” e il proprio “stemma di famiglia”?  La principale eredità incorporea che riceviamo dai nostri antenati è senza dubbio il diritto al nome (e, dunque, al cognome) che è un diritto fondamentale ed assoluto della persona. Tale irrinunciabile e primario diritto è tutelato dalla Costituzione della Repubblica Italiana (articoli 2 e 22), ma anche dall'art. 8 della Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo e dall'art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La strada da seguire è il riconoscimento pubblico riferito all’identificazione personale quali titolari di un diritto storico legato al patrimonio morale della nostra famiglia. Sebbene le possibilità di riconoscimento pubblico possano essere molte vale la pena ricordarne quattro: 1) non essendo più possibile per gli italiani la registrazione dello stemma di famiglia presso Uffici Araldici di Stato come fu in passato (Spagna, Sudafrica), oggi non resta che la possibilità di registrazione dell’espressione grafica del nome ovvero lo stemma inteso come marchio. In Italia i marchi vengono depositati per la registrazione presso gli UPICA (Ufficio Provinciale Industria Commercio e Artigianato), sezione Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, che si trovano presso le Camere di Commercio di ogni Provincia. Il marchio, in diritto, indica un qualunque segno suscettibile di essere rappresentato graficamente, in particolare: parole (compresi i nomi di persone), disegni, lettere, cifre, suoni, forma di un prodotto o della confezione di esso, combinazioni o tonalità cromatiche, purché il marchio sia idoneo a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli delle altre. Ovviamente la registrazione deve essere fatta in maniera corretta ed adeguata alla validità del marchio. La registrazione dura dieci anni a partire dalla data di deposito della domanda, salvo il caso di rinuncia del titolare, e alla scadenza può essere rinnovata ogni volta per ulteriori dieci anni. 2) Il deposito dello stemma (inteso come l’espressione grafica del nome) presso un notaio con una scrittura privata (in questo modo si ha una data certa dell’uso).

3) La registrazione del copyright del nome e cognome con l’indicazione del titolo nobiliare rivendicato dal registrante, ma inteso come identificazione personale, unitamente allo stemma.

4) Il riconoscimento dello pseudonimo realizzato con il titolo nobiliare che aveva la famiglia chiedendo il riconoscimento alla SIAE.  Tutto quanto esposto in queste quattro possibilità si riferisce solo ad atti pubblici che travalicano i limiti della sfera privata, ben diversamente dall’assoluta inefficacia che caratterizza qualunque “riconoscimento” associativo privato. Ma a ben vedere si tratta comunque di procedure che, sebbene del tutto lecite, potrebbero condurre a situazioni di divertito imbarazzo per chi le attua, nel caso si cadesse nell’errore di farsi prendere la mano da un eccesso di ambizione personale: una persona, infatti, se lo ritiene può inventarsi uno stemma ex novo tutto suo (quindi senza che gli si possa imputare il plagio di un blasone storico conosciuto e consolidato nel tempo) oppure fregiarsi di un titolo inteso come identificazione personale, ma tutto ciò non potrà mai essere paragonato all’importanza di conoscere la vera storia della propria famiglia, la discendenza documentata e i personaggi che l’hanno caratterizzata nel tempo. Infatti ciò che è davvero importante e costituisce l’obbiettivo primario degli enti rappresentati da Pier Felice degli Uberti è quello di divulgare la cultura dell’amore per le proprie radici, attraverso la conoscenza documentale delle origini che consenta ad ognuno di noi di scoprire da dove veniamo e chi chi ha preceduti nel tempo perché solo raggiungendo tale consapevolezza – oggi peraltro facilitata da strumenti prima non disponibili, come ad esempio l’esame del DNA che permette di sapere a quale ceppo etnico-genealogico apparteniamo – possiamo essere in grado di conoscere fino in fondo noi stessi. Del resto l’antica esortazione dei latini “Nosce te ipsum”  - «Conosci te stesso» - (in greco antico γνῶθι σαυτόν, gnōthi sautón, o anche γνῶθι σεαυτόν, gnōthi seautón) è direttamente derivata da una massima religiosa greco antica iscritta nel tempio di Apollo a Delfi, che testimonia  quanto nel passato si fosse diffusa la cultura della conoscenza di se stessi attraverso lo studio delle proprie radici, che oggi identifichiamo nella storia di famiglia.

Gli stemmi:

I.A.G.I. - Istituto Araldico Genealogico Italiano

I.C.O.C. - International Commission for Orders of Chivalry (Commissione Internazionale sugli Ordini Cavallereschi).

IAGIok-2

International Commission for Orders of Chivalry - ICOC ooo-2

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