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Ultimo appuntamento con il trittico culturale del prof. Fongaro per la Dante Alighieri

Lunedì 15 novembre alle ore 16 presso l'“Aula Magna” dell'Istituto Padri Scalabriniani

Lunedì 15 novembre 2021 alle ore 16 è confermato, presso “Aula Magna” Istituto Padri Scalabriniani (Via Torta, 14) con la conferenza “LA MITOLOGIA NELLA COMMEDIA DANTESCA, l’incontro conclusivo del “Trittico letterario” tenuto dal Padre Scalabriniano prof. Stelio FONGARO nell’ambito della palinsesto culturale del Comitato Piacentino della Società Dante Alighieri.

Nella prima conversazione il prof. Fongaro ha illustrato il tema “Giacomo Zanella, e gli emigranti di fine-secolo XIX-inizio XX evidenziando come Zanella (1820-1888), poeta di strenuo gusto “classicistico”, religioso tormentato tra Fede e Scienza, sia stato snobbato dalle grandi “Muse” del tempo, da Verga a Carducci, da Deledda a D’Annunzio e Pirandello. Solo il Pascoli, col suo amaro sonetto “Lavandare” (riferito alle donne che non avrebbero più rivisto tornare il marito) richiama fortemente il sentimento zanelliano. Poeta degli umili, del lavoro, della campagna, della patria, dei drammi umani migratori (fenomeno sociale fin dal1860, che nel corso di un secolo si sarebbe tradotto in 26 milioni di italiani emigrati), disapprova l’emigrazione” quale causa di spopolamento di forze di lavoro nelle pur fertili patrie terre. Ma il poeta stesso compone la “Risposta d’un contadino ch’emigra”, ove sottolinea il “duro motivo” della fame, della necessità esistenziale, della miseria e dello sfruttamento da parte dei padroni terrieri. L’intenso “classicismo” di Zanella, la sua religiosità e, nel contempo, il suo “socialismo” umano si fondono con la malinconia, e altresì con le scoperte scientifiche, traducendosi in una perenne intima crisi combattuta tra il proprio forte senso religioso e il necessario progresso della scienza.

Tema della seconda conferenza del prof. Fongaro “La religiosità e l’Ermetismo” di Giuseppe Ungaretti (1888-1970), Eugenio Montale (1896-1981), Salvatore Quasimodo (1901-1968). L’”Ermetismo” - poetica assente da ogni fine narrativo, didattico, oratorio, virtualmente non imprigionabile in confini storici e di costumi legati al tempo, si è rivelato nel pieno ‘900, ma potrebbe esservi in qualunque momento, perché

l’ “ermetico” si isola in uno spazio interiore, ad espressione di una crisi umana. Ma “ermetismo” - ha evidenziato Fongaro  - non vuol dire non-religiosità. Ungaretti e Montale hanno, con le loro mirabili composizioni, evidenziato una forte ricerca di Dio. Ungaretti reputa la bellezza dell’universo il segno della sacramentalità divina. Gli istanti fuggevoli, l’“essenzialità” espressiva e la purezza della sua poetica manifestano la testimonianza di un rapporto personale del poeta con Dio, l’apertura all“eternità”, all’ immensità”, all’ infinito” e al mistero. Fino a racchiudere in un solo verso di tre parole (il celebre “Mattino”) un grande concetto di speranza, nonostante la visione pessimistica (anche sua) del mondo.

Ungaretti cerca un luogo, che però non può essere geografico (“Girovago”) ma un “paese innocente”. Che è il Paradiso. Né “La preghiera” avverte la vanità delle cose, l’ansia di eternarle, la precarietà del vivere, e la misura divina proposta come misura all’uomo.

Anche Montale è alla continua “ricerca” di Dio; ma è agnostico: “Tante cose non so. Non sono sicuro nemmeno che il mondo esista”. Eppure, il poeta ostinatamente ricerca una fede, nella convinzione che la vita deve pur avere un significato. Montale esprime il “male del vivere”, la crisi spirituale dell’uomo moderno, la sua incapacità di raggiungere delle certezze e sicuri punti di riferimento. Si è immersi in un mondo sfiduciato, basato sulla logica del profitto; l’ uomo “moderno” vive una profonda crisi di valori, si sente disorientato, incapace di comunicare. E Montale tenta di testimoniare tale malessere, dipendente anche da fattori politici di un tempo disumanizzante: egli, come l’osso di seppia relitto del mare, si sente inaridito, senza vita. Nella sua poesia si trovano tracce di ansia religiosa di fronte ad una esistenza di angoscia, con una ricerca del “divino” quale possibilità di speranza.

Diversa, ma non assente, la religiosità di Salvatore Quasimodo. Pur frequente la mancanza di speranza, sono tuttavia presenti riferimenti seri alla Bibbia. Di grande cultura classica, eccellente traduttore dei lirici greci, premio Nobel nel 1959, lucido è il suo giudizio su una contemporaneità che con la scienza ha creduto di poter conservare i valori del Cristianesimo e, nel contempo, eliminare Cristo ritornando al livello dell’uomo delle caverne. Pur tormentato, Quasimodo non è stato ateo. Si dice che passando davanti a una chiesa, vi entrava e faceva il segno della croce, benché non volesse essere visto. Grande traduttore del Vangelo di San Giovanni dal greco, di se stesso dice di essere un niente che si china di fronte a Dio. In conclusione, l’uomo, nel suo fondo, quando si riduce all’essenziale, non può che trovare Dio, perché all’”io” dell’uomo non risponde che il “Tu” del Padre.

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