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Libertà di pensiero

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A cura di Carmelo Sciascia

Falcone e Borsellino: considerazioni nel ricordo dei due giudici

Relazione dell’incontro organizzato dalla Società Dante Alighieri il 12 Gennaio presso la Famiglia Piasinteina nel 30° delle stragi di Capaci e di via D’Amelio

Non essendo uno studioso del fenomeno mafioso, come si usa dire un mafiologo, affronterò l’argomento come un cittadino che si è informato e continua ad informarsi sui fatti (così in termini giuridici, si usa dire: convocato come persona informata). Fatti che sono stati seguiti e studiati nel corso degli anni. La pluridecennale lettura di tutto ciò che riguardava l’argomento mafia ha permesso di farmene una precisa opinione personale che adesso intendo condividere con voi. Sono informato sui fatti probabilmente come un qualsiasi siciliano o un qualsiasi piacentino: come un piacentino di Sicilia. La formazione culturale siciliana sommata alla quarantennale esperienza piacentina contribuisce a fare di me un osservatore in qualche modo distaccato e quindi privilegiato.

E’ risaputo che quest’anno ricorre il trentennale della scomparsa di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e che gli anniversari devono essere celebrati. Quest’anniversario in particolare va ricordato: per rilevanza giudiziaria, per implicazioni storiche, sociali e politiche. A proposito debbo dire che il mio intervento non sarà la cronaca rituale con cui si ricostruiscono le biografie, anche perché oramai della vita dei due magistrati sappiamo tutto. Per certi aspetti può risultare più interessante affrontare il dopo, tutto ciò che è successo in Italia, dopo i due tragici attentati: di Falcone avvenuto il 23 Maggio, di Borsellino avvenuto il 19 Luglio dello stesso anno, era il 1992.

Capisco comunque perché Il Presidente Laurenzano abbia voluto darmi quest’incarico e capisco perché io lo abbia accettato. Spulciando tra le note dei miei libri infatti qualche scritto che parla di mafia lo si trova sempre e non a caso. L’essere siciliano non mi permette di rimanere indifferente di fronte al fenomeno mafioso, fenomeno complesso, dalle tante implicazioni, qualche volta manifestamente comprensibile, il più delle volte di difficile interpretazione. Ho accettato l’incontro anche perché l’essere cresciuto in Sicilia, avere fatto il liceo ad Agrigento ed avere frequentato l’Università a Palermo, mi ha dato modo di trovarmi molto vicino a tanti fatti delittuosi, durante l’infanzia, la giovinezza ed oltre. Ho assistito ad eventi, come dicevo, da un punto di vista privilegiato, se privilegio può considerarsi l’avere seguito tutte quelle manifestazioni che alla mafia sono annesse e connesse. Ricordo bene il periodo fino agli anni Settanta, in cui si negava l’esistenza stessa della mafia. Pubblicamente nella Pastorale dal titolo "Il Vero volto della Sicilia", che diramò dal Palazzo vescovile in data 27 marzo 1964, era la "Domenica delle Palme", il Cardinale di Palermo Ernesto Ruffini ebbe a sostenere testualmente che: “La mafia non esiste”.  Le grandi piaghe della Sicilia, a suo dire, erano “il Gattopardo” per lo scetticismo professato e teorizzato da Tomasi di Lampedusa e Danilo Dolci come organizzatore di una vera e propria congiura diffamatoria nei confronti dell’Isola.

Da premettere che già nel 1960 c’era stato, nella mia provincia, ad Agrigento il delitto del Commissario di polizia Cataldo Tandoy. Omicidio che, come prassi ricorrente dei delitti di mafia antecedenti quel periodo, sarebbe stato classificato come un delitto avvenuto per motivi sentimentali, volgarmente per motivi di “corna”. Una ricostruzione romanzata di questo delitto, il primo che riguardasse un poliziotto, ce la offre il bel libro di Antonio Russello “La grande sete”, pubblicato nel 1962. L’altro libro ispirato dallo stesso omicidio è il più noto “A ciascuno il suo” di Leonardo Sciascia pubblicato nel 1966. Opera conosciuta dal grande pubblico anche per la trasposizione cinematografica realizzata dal regista Elio Petri nel 1967. Due autori, Russello e Sciascia, lontanissimi per stile ma paradossalmente vicini nel presentarci una verità storica (l’esistenza della mafia ed il suo agire delinquenziale) dietro un’apparente realtà di amori e tradimenti (veri o presunti). Dopo di loro, molti sono stati nel tempo le manifestazioni letterarie che hanno avuto come riferimento peculiare Il fenomeno mafioso.

Se la prima parte di questo incontro fa esplicito riferimento alla figura di Falcone e Borsellino, la seconda parte testualmente recita: “considerazioni nel ricordo dei due giudici”. Considerare deriva dal latino stella, quindi siderale, osservare le stelle, attività utile per i Romani al fine di trarne auspici. Quindi osservare con attenzione, riflettere, valutare. E giungere a conclusioni quanto più logiche del fenomeno mafioso, sia prima che dopo gli attentati ai due noti magistrati.

Riportiamo, per iniziare a parlare di mafia, una definizione che Leonardo Sciascia diede in un suo saggio del 1957, che si può estendere a tutte le organizzazioni con scopi criminali. Sciascia dice che la mafia è: «una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi violenti». Una definizione della mafia siciliana che fino agli anni Sessanta, era ancora legata ad un mondo preminentemente agricolo, dove per proprietà si intendeva ancora la proprietà terriera, il latifondo, ed il lavoro un’attività legata preminentemente all’agricoltura. Il proprietario terriero apparteneva originariamente alla classe nobile, una nobiltà che si era ritirata nei grossi centri urbani ed aveva lasciato il proprio feudo in gestione ai gabellotti (gabelloto in siciliano), deriva da gabella (dazio, tassa). Costoro rappresentavano la piccola borghesia agricola che approfittando della lontananza e dall’incapacità dell’aristocrazia, passarono da affittuari a proprietari. Fu questa nuova classe di proprietari che attraverso la figura del campiere, uomo di fiducia preposto al controllo del territorio e di chi vi lavorava, che nasce “quell’associazione a delinquere” che possiamo chiamare mafia nel suo significato moderno. Giovanni Verga nella novella “Libertà” dà una visione chiara di questo connubio quando scrive dei fatti di Bronte: “A te barone! Che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri”. Siamo nel 1860 ed era ancora presente la figura del proprietario nobiliare (il barone in questo caso) figura come si è detto che pian piano scomparirà, perché sarà sostituita dalla piccola borghesia che rappresenterà fino alla prima metà del Novecento la nuova classe dell’imprenditoria agraria. Questa è la prima manifestazione della mafia in senso moderno. Perché diversamente potremmo farla risalire addirittura al ‘600, precisamente al 1516, quando inizia il dominio spagnolo in Sicilia con Carlo V per continuare, nel Sei e Settecento, con il regno dei viceré. Questo metodo ci porterebbe molto lontano a scavare nel passato, ad una protostoria della mafia se non ad una preistoria che si perderebbe nella notte dei tempi.

Ma tornando al ‘600 il milanese Manzoni ci darebbe una mano, nella spiegazione dell’origine del fenomeno mafioso, con la figura di Don Rodrigo e dei suoi sgherri, i famosi bravi. Non a caso c’è chi sostiene che se il dominio spagnolo in Lombardia fosse stato più duraturo, come lo è stato in Sicilia, la mafia sarebbe stata una manifestazione tipicamente lombarda anziché siciliana. Don Rodrigo potrebbe sostituire la figura del gabellotto come i suoi bravi la figura dei campieri.  Arroganti, violenti, prepotenti, eseguivano tutto ciò che veniva chiesto loro senza battere ciglio e senza scrupoli. La descrizione perfetta degli esecutori delle direttive dei boss mafiosi, coloro che hanno rappresentato il braccio armato della mafia, di ieri come di oggi. (Giovanni Brusca ne è stato un prototipo)

Cosa c’entra tutto ciò con Falcone e Borsellino? C’entra perché per capire la mafia studiata e combattuta dai due magistrati è necessario conoscere la sua evoluzione storica. Abbiamo accennato in qualche modo alla nascita del sistema mafioso come mediazione imposta, nel mondo agrario, con metodi violenti. Possiamo definire questo periodo mafioso come la prima fase storicamente accertata e da tutti accettata.

La massima manifestazione della potenza e della forza dell’organizzazione mafiosa la si può riscontrare ad iniziare dal 1943 con lo sbarco delle Forze Alleate in Sicilia. Il rapporto Scotten, porta la data del 29 Ottobre 1943 (cartella del Foreing Office 371/37327, numero di protocollo R11483), testimonia la valutazione sullo stato della mafia in Sicilia e pone tre quesiti: combattere la mafia, abbandonare l’isola al suo controllo, allearsi con essa. La scelta delle Forze Alleate cadde sulla terza possibilità (che fu poi la scelta di parte della politica maggioritaria nel dopoguerra, della D.C. in particolare).

Fu così che la mafia venne usata dagli americani per favorire lo sbarco del 1943, accordandosi con Luky Luciano, il capo della mafia siculo-americana, fu così che la mafia venne usata poi, come vedremo, anche in funzione anticomunista. Avvenne puntualmente a Portella della Ginestra nel ‘47, sarà poi anche un valido strumento di mediazione per fini economico-finanziari. Significativo negli anni ’60 e ’70 il caso del bancarottiere Michele Sindona, noti i suoi legami con Licio Gelli e la P2, la Massoneria sarà coinvolta spesso nelle vicende di mafia (in parte lo è ancora, soprattutto in Calabria).  Gli incarichi che vennero dati dopo lo sbarco degli americani furono i seguenti: Don Calogero Vizzini sindaco di Villalba, Genco Russo sovraintendente a Mussomeli, Damiano Lumia interprete di fiducia, Max Mugnani addetto prodotti farmaceutici, Vincenzo De Carlo ammasso del grano.  Una lista di mafiosi grazie all’AMGOT prese il potere in Sicilia: legalmente, spudoratamente. Il film di Pif del 2016 “In guerra per amore” ci descrive con leggerezza un quadro preciso di questi eventi.  Nel 1957 all’Hotel des Palmes a Palermo si tiene il più grande e pubblico simposio della mafia siculo-americana. Iniziano i rapporti organici con i partiti ed i politici. Inizia, di lì a poco, il sacco di Palermo.

Tutti conosciamo i fatti di Portella della Ginestra, un bandito di nome Giuliano e la sua banda massacrano contadini, donne e bambini, che si erano riuniti per festeggiare il primo Maggio, era il 1947. Una triste pagina della nostra storia che vede la sua conclusione nel processo di Viterbo terminato nel 1953 con pesanti condanne per i banditi, esemplare il caso Pisciotta (il vero assassino di Giuliano) che in aula aveva promesso rivelazioni sui mandanti della strage, verrà avvelenato in carcere. Così dichiarò durante il processo l’imputato Pisciotta: “servimmo con lealtà e disinteresse i separatisti, i monarchici, i democristiani e tutti gli appartenenti a tali partiti che sono a Roma con alte cariche, mentre noi siamo stati scaricati in carcere. Banditi, mafiosi e Carabinieri eravamo la stessa cosa”. Il processo di Viterbo non avrà nessuna appendice tale da permettere di processare i mandanti politici della strage, il ministro degli interni allora era il democristiano Mario Scelba. Scelba, siciliano di Caltagirone, come Don Sturzo, il fondatore del Partito Popolare. “C’è chi ha detto a Giuliano, sta tranquillo perché Scelba è con noi” – questa affermazione riferita dall’onorevole Li Causi, primo segretario del PCI in Sicilia, alla Camera dei Deputati credo sia eloquente sul connubio, già allora presente tra esponenti politici di primo piano e rappresentanti della mafia locale. Non bisogna meravigliarsi, perché questo modo di procedere a livello giudiziario, sarà una costante di tante sentenze successive: condanna dell’organizzazione militare della mafia, senza intaccare il vertice dei mandanti, le raffinate menti politiche che ne erano a capo. Ricordiamo a proposito la definizione data da Falcone, dopo l’attentato all’Addaura, a proposito delle “menti raffinate” che stavano dietro le campagne di delegittimazione dell’azione dei magistrati, in particolare nei riguardi di Falcone e Borsellino.

La seconda ondata della brutale manifestazione mafiosa l’abbiamo, restando in ambito siciliano, nelle città. Negli anni Sessanta inizia il sacco di Palermo. Ma anche di Napoli, come di quasi tutte le città d’Italia.

Piacenza non è esente dalla colata di cemento che si riversò sulle città italiane. È degli anni Sessanta, precisamente del 1965, la realizzazione del grattacielo dei Mille ad opera dell’architetto Mario Cattozzo e dell’ingegnere Salvatore Ligresti che era nato in Sicilia, a Paternò. Salvatore Ligresti, imprenditore milanese, è stato un personaggio discusso per sospetti legami con la mafia fino ad essere coinvolto nell’indagine di tangentopoli (è stato arrestato nel 1992). Possiamo dire senza ombra di essere smentiti che è il 1959 la data simbolo dello scempio edilizio che si è consumato a Palermo, capitale del Liberty. / In quell’anno viene infatti abbattuto il Villino Deliella, una costruzione che sorgeva in piazza Crispi a Palermo, era una delle opere superstite dell’architetto Ernesto Vasile, per fare spazio alla costruzione di un nuovo moderno, grande, anonimo e redditizio palazzone.

L’arricchimento facile e gli affari, si spostano così dai piccoli paesi dell’entroterra alle grandi città. L’intreccio tra rappresentanti della politica e costruttori vede i piani regolatori delle città disegnati secondo precisi interessi speculativi. Significativo di questa nuova realtà il film di Francesco Rosi “Le mani sulla città”, film del 1963, la didascalia così recita: «I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce». Noi oggi possiamo dire chiaramente che i personaggi che si sono arricchiti e che di quello scempio sono stati gli autori hanno un preciso nome e cognome. Salvo Lima e Vito Ciancimino per citarne solo alcuni, ed un partito politico egemone nell’Isola, la Democrazia Cristiana. Falcone che era nato nel quartiere storico della Kalsa il 18 Maggio del 1939, nel 1959, la data simbolo del sacco della città, ha vent’anni ed è costretto a trasferirsi dal quartiere storico in cui è nato in via Notarbartolo. Proprio quando una variante al piano regolatore dava inizio alla più grande speculazione edilizia che città abbia mai conosciuto. Nello stesso anno il 1959 Borsellino, che era nato il 19 Gennaio del 1940, si era iscritto da studente al Fronte Universitario d’Azione Nazionale, organizzazione giovanile della destra politica italiana.

Giungiamo così a grandi passi agli anni 70 e 80. Gli anni della grande mattanza. I giornali riportavano sempre più spesso foto di morti ammazzati, di poliziotti, giornalisti, magistrati, politici. Nel libro “la notte della civetta” il giornalista Piero Melati si pone, in modo ossessivo, una domanda: “chi lo sa in che momento si era fottuta la Sicilia”. E racconta, con amara presa d’atto, la storia di chi ha vissuto sulla propria pelle tre guerre: “nella prima è morta la mia generazione. Nella seconda sono morti gli eroi. E nella terza siamo morti dentro tutti noi che potevamo raccontare”.  Era successo negli anni settanta che un regime totalitario mafioso aveva occupato lo Stato ed a esso si era sostituito. E l’aria che si respirava può essere descritta con le parole che la filosofa tedesca Hannah Aredent ha usato per descrivere il nazismo: “Il terrore è la vera essenza del regime totalitario” come il terrore diffuso dai morti ammazzati sulle strade delle città siciliane è la vera essenza della mafia. Negli anni 70/80 i clan dei Corleonesi e dei Palermitani si erano alleati per spartirsi i proventi del traffico della droga. Palermo, come tante altre città d’Italia, erano state trasformate in città di zombi, tanti ragazzi uccisi dalla droga dovrebbero essere considerati e ricordati dalla memoria collettiva come vittime delle mafie, non solo come vittime della droga.

La mafia non è vero che uccide solo d’estate o solo nelle grandi città. Uccide anche nei piccoli paesi. A Racalmuto, il mio paese, negli anni dal 1990 al 92, si scatenò una vera e propria guerra tra i cosiddetti stiddari e la mafia tradizionale. Molti giovani morirono, qualcuno aveva fatto il militare con me, sognavano di far carriera nella nomenclatura di Cosa Nostra, tutti finiranno male, o morti ammazzati o nelle patrie galere. Un panorama lucido e completo di quei fatti e di quegli anni lo troviamo nel libro di Gaetano Savatteri “I ragazzi di Regalpetra”. La strage di Racalmuto del 23 luglio 1991, fu opera di un gruppo di fuoco composto da stiddari che assassinò tre mafiosi e un ignaro venditore ambulante nella piazza principale del paese. Vittima eccellente degli stiddari nel 1990 fu Rosario Livatino, giudice del tribunale di Agrigento, beatificato dalla Chiesa il 9 Maggio del 2021. (A proposito dell’uccisione di Livatino ricordate la polemica sui giudici ragazzini?)

L’organizzazione mafiosa detta stidda non è finita, ma è ancora presente al sud come al nord, non a caso è stato accertato da una recente indagine che una cellula ha continuato ad operare nella vicina città di Brescia.

Elenco caduti nella lotta alla mafia

L’elenco dei caduti per mano della mafia, ancora oggi a pronunciarlo fa paura. Questo l’elenco dal 1970 agli anni ’90, gli anni che a noi adesso interessano: 1970 viene sequestrato a Palermo il giornalista de L’ORA Mauro De Mauro, il corpo non è stato mai più ritrovato, 1971 a Palermo il Procuratore della Repubblica Pietro Scaglione, 1977 a Corleone il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, nel 1978 a Cinisi il militante di Democrazia Proletaria Peppino Impastato, studente alla stessa Facoltà di Filosofia a Palermo dove mi ero laureato nel 1976, Impastato viene trucidato in concomitanza con l’uccisione di Moro ad opera delle BR a Roma. Nel solo 1979 in sequenza a Palermo vengono uccisi: il giornalista del Giornale di Sicilia Mario Francese, il segretario della DC Michele Reina, il dirigente della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova ed il maresciallo Lenin Mancuso. L’anno successivo, nel 1980 a Palermo il Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella (fratello dell’attuale Presidente della Repubblica Sergio Mattarella), a Monreale il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il Procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa. Nel 1982 il segretario regionale del PCI Pio La Torre ed il suo collaboratore Rosario Di Salvo, l’ordinario di medicina legale all’università di Palermo Paolo Giaccone, il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo. Nel 1983 il consigliere istruttore del Tribunale di Palermo Rocco Chinnici, nel 1984 il giornalista Giuseppe Fava viene assassinato invece a Catania, nel 1985 il vice dirigente della Squadra mobile di Palermo Ninni Cassarà, nel 1988 il magistrato Alberto Giacomelli ed il presidente della Corte di Assise di Appello di Palermo Antonino Saetta.  Per restare fermi agli anni 80, perché in realtà gli assassini per mano mafiosa sono continuati anche negli anni 90, basti ricordare il magistrato Rosario Livatino, nel 1991 l’imprenditore Libero Grassi, nel 1993 don Pino Puglisi, il prete di Brancaccio e a Barcellona Pozzo di Gotto il giornalista Beppe Alfano.

A questo lungo, triste e drammatico elenco si devono aggiungere i morti delle lotte tra cosche mafiose per il controllo della Cupola di Cosa Nostra, tra queste morti eccellenti ricordiamo nel 1981 il boss Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, nel 1982 Alfio Ferlito ed i figli di Buscetta. Fino ad arrivare al controllo definitivo della mafia dei corleonesi guidata da Totò Reina.

Questo il quadro drammatico in cui si sono trovati ad operare i nostri magistrati. Il nuovo corso investigativo inaugurato da Chinnici nel 1980 viene portato avanti da Nino Caponnetto che gli è succeduto nel 1983.

Del pool di magistrati dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo guidati da Caponnetto facevano parte Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe DI Lello Finuoli e Leonardo Guarnotta. In seguito si aggiunsero Giacomo Conte, Gioacchino Natoli e Ignazio De Francisci.

Il metodo del pool consiste nel contrastare Cosa Nostra attraverso un effettivo e valido coordinamento superando il vecchio e controproducente sistema della frammentazione delle indagini come fossero procedimenti separati. Alla unitarietà della gestione dell’organizzazione mafiosa, rappresentata dalla Cupola, bisogna rispondere nello stesso modo, con la centralizzazione delle informazioni condivise da tutti gli operatori specializzati nelle varie inchieste.

Falcone e Borsellino costituiscono di questo pool le personalità più attente, lontani da qualsiasi astrazione ideologica e pragmatica. Da Siciliani di “tenace concetto” hanno saputo combattere la mafia, da magistrati hanno saputo rappresentare lo Stato, senza compromessi e fraintendimenti.

La presenza costante della morte, delle minacce continue e concrete, non sono stati motivi di dissuasione, consapevoli, i due magistrati hanno considerato la presenza della morte una seconda pelle, come ci ha insegnato Montaigne, è la morte a dar significato alla vita. Credo che la letteratura francese ed illuminista abbia avuto un peso rilevante nella loro cultura come sulla formazione di gran parte dei letterati dell’Isola. Purtroppo, spesso succede che la Sicilia “fa i suoi figli migliori e poi li mette contro”. Grave l’incomprensione che caratterizzò il rapporto dei due magistrati con Leonardo Sciascia. Un’incomprensione dovuta al carattere sospettoso e diffidente del vero siciliano, secondo Piero Melati, per rilevanti questioni di fondo, a mio avviso. Il motivo principale del dissidio è stato causato dall’uso dei mezzi richiesti e dai metodi usati per affrontare la lotta alla mafia.  Sono noti gli interventi espressi dallo scrittore racalmutese sul concetto di diritto e sul modo di esercitare la giustizia, concezione che si differenziava notevolmente da quella dei due magistrati. Credo che il discorso di Sciascia sia stato più teorico, di principio, mentre l’azione dei due giudici doveva per forza di cose essere più pragmatico avendo come scopo il raggiungimento di un fine nel più breve tempo possibile. Dopo le incomprensioni ci fu comunque una riconciliazione, Borsellino e Sciascia ebbero modo di incontrarsi e chiarire le proprie posizioni. Il 5 luglio del 1991, a Racalmuto, presente il ministro Claudio Martelli, Borsellino ebbe a dichiarare che tra lui e lo scrittore non c’era stata nessuno scontro, ma che gli scritti di Sciascia (si pensi ai professionisti dell’antimafia) erano invece stati usati da chi, anche all’interno della magistratura, intendeva smantellare il pool antimafia.

Sostanzialmente il metodo usato dal pool di Palermo è stato quello indicato già nel “Giorno della civetta” da Leonardo Sciascia: “Bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena, e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende: revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze, o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…”

Si è detto del metodo di indagine del pool, ma l’arma migliore usata soprattutto da Falcone si è rivelata l’uso dei pentiti. Il loro ruolo è stato fondamentale per conoscere i riti di affiliazione, l’organizzazione in famiglie, fino ad arrivare alla Cupola come centro nevralgico del potere decisionale di Cosa Nostra. Ma non va dimenticato il rapporto umano che si stabilisce tra i magistrati ed i collaboratori e pentiti, esemplare il rapporto di Borsellino con Rita Adria. Questa ragazza è cresciuta in una famiglia di mafiosi, amata dal padre, mafioso ucciso dalla mafia, odiata fino ed oltre la morte dalla madre rimasta legata alla mafia. Rita percepisce la figura di Borsellino come quella di un padre che ascolta, che presta attenzione, che l’aiuta amorevolmente ad essere se stessa. Non sarà stato casuale il suo suicidio dopo l’attentato di via D’Amelio. Come non è stato casuale lo scempio della tomba di Rita Adria a Partanna da parte di sua madre.

I pentiti

Il primo pentito di mafia è stato Leonardo Vitale, correva l’anno 1973 quando si presenta spontaneamente al Commissariato di Palermo, nell’ufficio del vicequestore Bruno Contrada (un nome da tenere a mente perché sarà coinvolto in tante altre vicende giudiziarie). Vitale rivela tutto sugli omicidi commessi, sui legami tra politici e mafiosi, sull’organigramma della Cupola. Non viene creduto, considerato pazzo viene rinchiuso in manicomio. Era convinzione comune che un mafioso non parla, se parla è un pazzo e come tale non credibile! Tornato libero viene ucciso nel 1984. (L’uomo di vetro di Salvatore Parlagreco, 1998)

Stefano Calzetta, nel 1983, dieci anni dopo il pentimento di Vitale si presenta spontaneamente alla caserma Longano di Palermo per importanti rivelazioni sulla famiglia mafiosa di Corso dei Mille, simula la pazzia e cerca di andare in manicomio, unico escamotage per salvare la pelle, non avendo ricevuto nessuna protezione dallo Stato.

Finalmente giungiamo a Tommaso Buscetta, se Garibaldi ebbe l’epiteto di eroi dei due mondi Buscetta potrebbe essere considerato la primula nera di molti continenti. È stato ed ha svolto attività di vario genere in Argentina, Messico, Stati Uniti, Brasile, detenuto in diversi carceri italiani, è riuscito anche ad evadere. È stato arrestato, rimesso in libertà, nuovamente arrestato ed estradato. Sposato diverse volte legalmente ed illegalmente. Inizia la sua collaborazione con il giudice Falcone il 16 luglio del 1983. (Il film Il traditore di Marco Bellocchio)

Vincenzo Sinagra è un altro pentito, un altro che usa la pazzia per evitare la condanna quando viene arrestato da mafioso. “Perché consapevole che non avrei saputo simulare la pazzia in modo adeguato, ho deciso di collaborare con la giustizia”. Sappiamo bene quanto di Pirandello e di pirandelliano c’è in ogni forma di pazzia, nella pazzia di ognuno di noi. La pazzia dietro cui si celano i tanti mafiosi, più o meno pentiti, non è una malattia da includere nelle cliniche mediche, ma credo sia soprattutto una manifestazione di presa di coscienza, una anticipazione della conoscenza, una presa d’atto per sfuggire alla realtà, per continuare a vivere o sarebbe meglio dire per continuare a sopravvivere. Tutto sommato una pazzia razionale. Altri pentiti e collaborati sono stati Salvatore Contorno, Vincenzo Marsala, Antonino Calderone della famiglia di Catania e Francesco Marino Mannoia palermitano.  Il pentito Marino Mannoia confessò a Falcone, tra le altre cose, di essere stato uno dei ragazzi che avevano rubato nel 1969 la “Natività” del Caravaggio dall’oratorio di San Lorenzo a Palermo e di averla consegnata a Stefano Bontate.

Stefano Bontate, faceva parte della Cupola ed aveva avuto contatti con Andreotti e tramite Dell’Utri con Berlusconi. Era, Bontade, il rappresentante tipico di tutte le attività della mafia, dagli appalti, alle speculazioni edilizie, dal riciclaggio al traffico della droga, sarà fatto eliminare dai corleonesi su ordine di Riina. Del furto della Natività ne parla Sciascia nell’ultimo libro una “Una storia semplice”, il regista Roberto Andò in “Una storia senza nome”, uscito nelle sale nel 2018. Il regista Massimo D’Anolfi in un documentario registra la testimonianza di Monsignor Rocco Benedetto, all’epoca del furto parroco dell’Oratorio di San Lorenzo, protagonista di una trattativa con la mafia per il recupero della tela. Da sottolineare come per la prima volta compare il termine trattativa che, come vedremo, occuperà in anni successivi le oscure cronache giudiziarie di tanti processi.

 Come si può constatare gli interessi della mafia hanno coinvolto, dopo tutte le attività conosciute fino ad allora, anche il mondo dell’arte. Marino Mannoia riferendosi a Giovanni Falcone disse testualmente: -” Proprio per questo ho deciso di collaborare esclusivamente solo con lei, perché fa parte di quelle pochissime persone temute da Cosa Nostra e ritenuto inavvicinabile e non corruttibile”.

Giovanni Falcone, Ferdinando Imposimato e Antonio Scopelliti furono tra i promotori della leggi n.82 del 1991 sul pentitismo che riguardava i collaboratori di giustizia, cui si aggiungerà poi la figura del testimone di giustizia. Nell’isola dell’Asinara troviamo nel 1985 i due giudici a studiare le carte in preparazione del Maxiprocesso. La mole delle carte processuali è enorme, per rendersene conto bisogna andare a Corleone, al CID (centro internazionale di documentazione sulle mafie), dove si rimane allibiti solo a guardare i numerosissimi faldoni allineati sugli scaffali che riguardavano il processo. La visita mi aveva impressionato perché nella stessa sede in contemporanea era stata allestita una mostra fotografica, le foto riguardavano i tanti morti ammazzati, spesso in maniera plateale, dalla mafia. La mafia aveva tutto l’interesse a che quelle foto fossero pubblicate, sarebbero state un chiaro monito alla popolazione, a conferma, ce ne fosse stato di bisogno, del sistema di terrore instaurato. Le foto di Letizia Battaglia avevano invece il compito di testimoniare l’efferata violenza mafiosa.

Il Maxiprocesso si svolse a Palermo il 10 Febbraio 1986 giorno di inizio del processo di primo grado per terminare il 30 Gennaio 1992 giorno della sentenza definitiva della Corte di Cassazione. Si era riusciti ad evitare, grazie a Falcone, con il sistema delle rotazioni, che il Giudice di Cassazione Carnevale potesse invalidare le sentenze sul Maxiprocesso, come era avvenuto per sentenze precedenti, con il pretesto di cavilli formali.

Falcone era già al Ministero di Grazia e Giustizia dove era stato chiamato dal guardasigilli Claudio Martelli. Come già dimostrato la mafia ha sempre usato la politica, i partiti sono stati favoriti a seconda della momentanea opportunità. La D.C. è stato il primo partito ad essere entrato nelle simpatie mafiose (vedi Ciancimino e la corrente andreottiana, per lo stesso Andreotti è stata accertata "un'autentica, stabile, ed amichevole disponibilità verso i mafiosi" almeno fino al 1980), poi è stata la volta dei socialisti o dei radicali per il loro garantismo e per una diffidenza mostrata verso l’uso strumentale dei pentiti, infine Forza Italia (vedi Marcello Dell’Utri, fondatore del partito di Berlusconi, condannato a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa; famoso il cappotto nelle elezioni politiche del 1994 tutti  i deputati (61) eletti in Sicilia facevano parte del Polo delle Libertà , in maggioranza di Forza Italia).

A proposito di certi delitti politici Falcone aveva dichiarato con sempre maggiore insistenza che sono stati facile bersaglio della mafia perché rimasti isolati. “Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono ad individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda conto. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”. Con queste parole terminava il libro di Giovanni Falcone “Cose di Cosa Nostra” scritto nel 1991 in collaborazione con Marcelle Padovani.

Nel 1989 ci fu l’attentato all’Addaura, Falcone così dichiarò al giornalista Saverio Lodato: “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi, ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi. (...) Sto assistendo all'identico meccanismo che portò all'eliminazione del generale dalla Chiesa... Il copione è quello. Basta avere occhi per vedere”. Era la stagione dei veleni, l’aria pesante pullulava di corvi, quei corvi che dal campo di grano di Van Gogh si annidavano adesso nei palazzi delle città, da Palermo a Roma. Aveva visto giusto il nostro giudice, come Dalla Chiesa, anch’egli veniva eliminato, cambiava solo La sceneggiatura ma non il copione, Falcone veniva assassinato insieme alla sua scorta sull’autostrada che da Punta Rais porta in città, all’altezza di Capaci, era il 23 Maggio del 1992.

 “Devo fare presto, non ho più tempo”, sapeva Borsellino che aveva poco tempo, dopo il collega ed amico Giovanni sarebbe toccato a lui. E così è stato.

Domenica 19 Luglio 1992, in via D’Amelio salta in aria insieme alla scorta. Dal luogo dell’attentato scompare l’agenda rossa dove il magistrato annotava tutto. Il depistaggio nell’ambito della relativa indagine è stato scandaloso.  Contro Falcone vi era stata una campagna di stampa: protagonismo giudiziario, condizionamento politico, pericolo per lo stato di diritto. Continuamente si insinuavano sospetti sul suo modo di condurre le indagini, ricordate le calunnie sull’uso improprio dei pentiti?  Un esposto addirittura accusava Falcone di aver consentito a Salvatore Contorno di tornare in Sicilia per commettere numerosi omicidi per poter prendere Riina. Si ventilò perfino che l’attentato all’Addaura fosse stata una sua messinscena. La stessa campagna accusatoria aveva riguardato indirettamente Borsellino (ricordate la polemica sui professionisti dell’antimafia?).

La Trattativa

Ma per capire l’importanza delle inchieste del giudice Borsellino basta dare uno sguardo ai processi che si sono svolti dopo il suo attentato. Nel 1992 le prime indagini sulla strage di via d'Amelio vennero coordinate dal Procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra e dai sostituti procuratori Ilda Boccassini e Fausto Cardella (cui si aggiunsero negli anni successivi i sostituti Annamaria PalmaNino Di Matteo e Carmelo Petralia). Poi nel corso degli anni a venire abbiamo assistito al processo bis, ter, quater. Tra accuse, autoaccuse e ritrattazioni. I processi possiamo dire sono continuati fino al 2021. L’atto d’accusa è costituito dall’articolo 338 del c. p.  “Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”.

La trattativa stato-mafia ebbe inizio quando gli Ufficiali del ROS contattarono per la prima volta Vito Ciancimino, quale intermediario di Reina, per conoscere le condizioni poste dalla mafia per abbandonare la strategia stragista. Strategia che ha inizio con la sentenza definitiva della Cassazione del 1992 che confermava la condanne del maxiprocesso di Palermo.

 La Corte d’Assise di Palermo nel 2018 condanna i vertici del ROS i Generali dei Carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni ed il Capitano Giuseppe De Donno, nonché il senatore e fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, oltre a Leoluca Biagio Bagarella, Antonino Cinà e Massimo Ciancimino.

 La sentenza d’appello di Palermo del 23 Settembre 2021 sulla trattativa Stato-mafia conferma integralmente i fatti, ma mentre condanna la mafia, per lo stesso reato assolve lo Stato.

Assolve Di Donno Giuseppe, Mori Mario e Subranni Antonio perché il fatto non costituisce reato, e Dell’Utri per non aver commesso il fatto, condanna Bagarella a 27 anni e Cinà a 12 anni.  Assolto Dell’Utri per non aver commesso il fatto. Praticamente per gli stessi reati vengono assolti i militari dell’arma che hanno trattato con la mafia e condannato i mafiosi per aver trattato con lo Stato. All’opinione pubblica viene tutto prospettato come “giustizia è fatta”, mentre l’impunità è garantita.

Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia, l’uomo che azionò materialmente il telecomando di Capaci, tra le tante rivelazioni, così ebbe a dichiarare: “Borsellino muore per la trattativa che era stata avviata tra i boss Corleonesi e pezzi delle istituzioni”; “il magistrato, dopo la strage di Capaci, ne era venuto a conoscenza e qualcuno gli aveva detto di starsene in silenzio, ma lui si era rifiutato. A Borsellino era stato proposto di non opporsi alla revisione del maxiprocesso e di chiudere un occhio su altre vicende. Il suo rifiuto ha portato 20 giorni dopo, a progettare ed eseguire l’attentato di via D’Amelio”.

Leonardo Sciascia aveva detto: “Lo Stato non può processare se stesso”. Qualcuno ha aggiunto che quando gli scappa di processarsi, presto o tardi, si assolve.

Questa storia, cioè la storia del sacrificio di Falcone e Borsellino non è una storia inedita. È una “consecutio temporum”. È una storia “secondaria” che si lega ad una storia principale. È la storia d’Italia.

Nel 1943 in Sicilia sbarcano gli Americani, da una parte ci sono i partigiani che combattono per liberare l’Italia dal fascismo, dall’altra vengono imposti dei mafiosi al comando dei Comuni siciliani (ricordate il già citato Rapporto Scotten?).

Un paio di anni dopo assistiamo alla strage di Portella della Ginestra in occasione dei festeggiamenti per il Primo Maggio, i contadini e le loro famiglie vengono barbaramente massacrate del bandito Salvatore Giuliano, i mandanti furono indicati in alcuni onorevoli monarchici e democristiani. Da una parte contadini che lottano per affermare loro diritti, dall’altra politici e servizi segreti che soffocano nel sangue la protesta.

Di vicende come questa è costellata la nostra storia unitaria e contemporanea. Come non ricordare la lunga e sanguinosa scia delle stragi di Stato che dagli anni Sessanta in poi hanno insanguinato tante piazze delle nostre città? (Piazza Fontana a Milano nel 1969, Piazza della Loggia a Brescia ed il treno Italicus nel 1974, stazione di Bologna nel 1980). Il nostro è uno Stato che indaga e depista contemporaneamente. Vittima e Boia. Da Piazza Fontana alla Stazione di Bologna, dall’assassinio di Moro a quello di Paolo Borsellino.

Negli anni a noi più vicini ci accorgiamo di un altro fenomeno, inquietante, la mafia che sembrava debellata continua ad essere presente nel tessuto sociale ed economico isolano e non solo. Non si spara più nelle strade di Palermo, la mafia ha cambiato pelle. La Confindustria siciliana si schiera apertamente contro il pizzo nel nome di Libero Grassi. Personaggi come Antonello Montante, presidente di Sicindustria, siciliano di Serradifalco, vengono elogiati dalle istituzioni politiche e militari, finanche da eminenti rappresentanti della cultura. Peccato scoprire infine che il movimento antimafia degli imprenditori siciliani è tutta una farsa, in realtà opera con gli stessi metodi mafiosi, è la stessa mafia travestita da antimafia. In questa rete troviamo coinvolti come sempre uomini dello Stato, dei servizi segreti, politici e giornalisti. (I padrini dell’antimafia- Attilio Bolzoni)

Piacenza oggi, Che fare?

. Anche a Piacenza, dove abbiamo avuto nel 1965 un grattacielo costruito da un discusso imprenditore come  Ligresti, un’indagine nel 2013 che riguardava i poliziotti della squadra narcotici, un Presidente del Consiglio Comunale eletto in comune dal partito della Meloni Fratelli d’Italia ed eletto Presidente dall’attuale maggioranza di centro destra con a capo l’attuale sindaco, incriminato e condannato nel 2019 perché ‘ndraghetista, l’arresto nel 2020 dei carabinieri della caserma di via Caccialupo, condannati nel 2021. Da sottolineare le motivazioni della relativa condanna “una città dalle tante facce, spesso vischiosa nei rapporti di potere, con una ricchezza diffusa, un’austera alacrità e un perbenismo imperante, talvolta con radicale connessioni con il contesto criminale sommerso legato al mercato degli stupefacenti, della prostituzione e, ma non in ultimo, dalla corruzione”. E’ giunto il momento di scegliere tra Noi e Loro, come suggerito nel libro intervista a Nino Di Matteo.  Abbiamo bisogno di profonde riflessioni e di scegliere, alla luce dei recenti avvenimenti, da che parte stare. Scegliere tra Noi e Loro. Tenendo ben presente che, contro qualsiasi retorica, a Noi piacciono i magistrati vivi che indagano bene ed in ogni direzione, a Loro i magistrati antimafia, da morti; a Noi andare in fondo, cercare sempre la verità, se non assoluta, la più plausibile, a Loro girarsi dall’altra parte in un eterno letargo; a Loro simpatizzare con politici corrotti o collusi, perché così fan tutti, a Noi liberare la politica da qualsiasi interesse privato e farne un utile strumento per una società migliore.

Carmelo Sciascia

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Falcone e Borsellino: considerazioni nel ricordo dei due giudici

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